sabato 14 aprile 2007

Still Life

Non mi sento di consigliare il film del regista cinese Zhang-Ke a chi è troppo abituato ai film occidentali, dove nessun minuto viene “sprecato” sotto il profilo della sceneggiatura.

Chi ama il cinema orientale, il coreano Kim-ki Duk ad esempio, è abituato a questa caratteristica, ma credo rimarrà deluso se si aspetta che i silenzi vengano colmati da una grande estetica o da indizi simbolico-filosofici che danno ai film di quest’ultimo il loro fascino esotico e intellettuale.

Still life invece è un film crudissimo, non nei contenuti, ma nell’estetica stessa: paesaggi urbani degradati, interni per lo più squallidi, dialoghi assolutamente prosaici, canzoni dai bellissimi testi cantate da comparse poco intonate.
Un film per certi versi antiestetico, ma molto realistico, almeno nell’impressione di chi non può dire di conoscere veramente la Cina.

In questo senso appare quasi contrastante la comparsa di due UFO, uno dei quali molto singolare, addirittura un palazzo! È difficile infatti ravvisare in essi una simbologia che rimandi ad altro.

Come accennavo prima, la visione del film può risultare veramente faticosa per alcuni, come si capisce uscendo dal cinema, tanto da lasciare della perplessità sulla sua vittoria all’ultimo festival di Venezia, ma probabilmente il valore stesso del film sta negli elementi stessi che lo rendono difficile da apprezzare: mi riferisco al realismo antiestetico.

Le vicende individuali rappresentate non fanno agio su facili lirismi, i quali anzitutto innalzerebbero figure estremamente semplici di lavoratori a finezze espressive principesche, cosa che invece è più facile avvenga irrealisticamente in un film all’occidentale.

La povertà, l’abbrutimento, la fatica e l’insensatezza dell’esistenza dei personaggi fanno riflettere su qualcosa che per noi oggi è tanto lontano da risultare quasi incomprensibile: se si è cresciuti vivendo senza stimoli e senza prospettive, il dialogo col prossimo è estremamente rarefatto e semplice.

Questo non sarebbe vero se rimanesse un forte senso della comunità tradizionale, all’interno della quale occupazioni comuni e rituali lascerebbero spazio a maggiori confronti tra le persone; è sicuramente il caso dei Malavoglia: poveri, ma non senza nulla da dirsi.

Il realismo del film invece giustifica i silenzi e la prosaicità: i personaggi sono tutti elementi di provincia che fanno le spese della modernizzazione rapidissima del paese: villaggi sommersi da nuove dighe per soddisfare il bisogno energetico delle metropoli, individui nullatenenti che si spostano continuamente in cerca di lavoro perdendo ogni contatto con la famiglia, di cui ignorano perfino il domicilio, essendo tale la sorte di ognuno dei loro membri.

Di contro l’occidentalizzazione: ragazzi arroganti e faciloni che imitano gli atteggiamenti di attori cinesi che a loro volta imitano “i duri” all’occidentale. Tutti hanno un cellulare, si scambiano i numeri e fanno ascoltare la propria suoneria polifonica, alcuni hanno addirittura un videogioco tascabile.

Tutto questo però vivendo, lavorando e alloggiando come i nostri sfollati della guerra. Una cosa quasi impensabile per noi che associamo il cellulare alla categoria del superfluo del benessere economico.

Probabilmente nelle intenzioni dell’autore il contesto è il vero protagonista del film, e visto tutto quello che si riesce a dire su un film quasi senza dialoghi, con tempi dilatatissimi e apparentemente anche senza estetica, giustifica pienamente la scelta di conferire il leone d’oro a questo lungometraggio che è difficile piaccia, ma ha sicuramente un elevato valore intrinseco.

Paolo Ferrera

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