sabato 21 aprile 2007

Death of a president

É ormai nota la trama di questo ultimo fanta-documentario di Gabriel Range: l’assassinio del presidente americano in carica tra meno di un anno, in autunno.

Il manifesto epigrafico con la data di nascita e di morte del presidente può dirsi sicuramente riuscito nella sua capacità di colpire gli osservatori, anche se lascia legittimamente delle riserve sul buon gusto, trattandosi di una persona in vita, e sull’intento intuibile di attirare chi non ama particolarmente il personaggio.

Tra l’altro sono stati questi paventati intenti ideologici a indurre molti cinema a non prendere nemmeno in considerazione l’idea di proiettare il film.

Il documentario si compone di due parti seccamente distinte: le circostanze dell’assassinio e la ricerca del colpevole. La discrasia non è tematico-cronologica, in quanto sotto questo profilo non potrebbe essere diversamente, visto che l’intero lungometraggio ruota intorno un evento pressoché istantaneo, il momento dell’uccisione, bensì stilistica: si passa da una severa ricostruzione fanta-storica alla narrazione di una vicenda personale.


Infatti dopo le false piste dell’FBI si ricostruisce la vicenda personale di un uomo che solo alla fine si capirà essere l’autore dell’attentato. Al contrario può dirsi molto riuscita la resa emozionale, etica e ideologica dei diversi falsi-intervistati, la quale oltre a variare sensibilmente a seconda che si trattasse di supporters o meno del presidente, è resa molto finemente.

Lo stesso può dirsi della ricontestualizzazione nel film di discorsi effettivamente pronunciati dal presidente Bush e dal vicepresidente Cheney, tanto da sembrare quasi fatti ad hoc; forse non sarebbe illegittimo pensare che piuttosto sia stato il film a essere costruito intorno a questi.

Il finale resta aperto, in quanto agli inquirenti resta da appurare chi abbia procurato la fuga di notizie sugli spostamenti del presidente, la quale si è propagata attraverso contestatori radicali fino all’esecutore dell’attentato.

Buona parte delle critiche rivolte al documentario si riferiscono alla mancanza di necessità di scomodare la storia, peraltro fantastica, per lanciare un messaggio politico, laddove a questo fine hanno perfettamente adempiuto documentari veri come i recenti the road to Guantanamo di Winterbottom e Whitecross (GBR 2006) e Gitmo: la legge di Guantanamo di Gandini e Saleh (SWE 2005). Queste critiche sarebbero pienamente giustificate se si volesse ridurre il film alla denuncia di certi atteggiamenti dell’opinione pubblica americana, come indiziare preconcettamente qualsiasi attentato di avere una matrice islamica e detenere abusivamente prigionieri mussulmani in base a sospetti infondati.

Ma il principale pregio del film, a mio parere, risiede in altro: mentre una riuscita atmosfera da thriller domina la prima parte del film con l’attesa e l’accelerazione narrativa in corrispondenza dell’attentato, nella restante parte vengono esposte due tesi etico-politiche che invitano a riflettere anche i sostenitori dell’attuale amministrazione americana: conoscere da vicino gli ambienti terroristici non comporta necessariamente di essere un terrorista e assassinare un presidente può essere la cosa più patriottica da fare, anziché rappresentare il culmine della sovversione. Vedere per credere.

Quanto al messaggio ideologico del film, nonché suo intento, consiste nell’assumere la prospettiva conservatrice per convincere i repubblicani delle mancanze del loro leader. In tal senso appare fin troppo manifesta la seconda delle tesi suddette, ma sono molto più striscianti e meno notabili le parole fatte proferire in intervista dai capi delle forze dell’ordine: nessuno più di loro rappresenta il paladino repubblicano, il difensore della patria dal nemico interno, e proprio loro assumono la posizione indubbiamente conservatrice della difesa della costituzione, la quale però, guarda caso, legalizza il dissenso e considera antipatriottico censurarlo. Si tratta di una critica implicita ai Patrioct Acts da un’ottica indiscutibilmente conservatrice.


È inutile negare che il film ideologicamente prende partito, anche se in apparenza non vorrebbe farlo, manifesti a parte, ma non per questo piacerà a tutti i dissidenti con l’attuale amministrazione americana, né, spero, lo riterranno preconcettamente inguardabile tutti coloro che si schierano a favore.

Dopo aver messo in evidenza anche qualche messaggio subliminale, spero di aver dato gli elementi per sapere cosa aspettarsi e, magari, vederlo col distacco più funzionale al suo apprezzamento.

Paolo Ferrera

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