venerdì 31 agosto 2007

Il Wingelosk



I draghi che ho disegnato e che disegno tutt’oggi, nelle mie spinte ispiratrici, hanno la capacità di volare, molto spesso, quella di vivere agiatamente sulla terraferma, quasi sempre, fondendo insieme l’elemento acquatico e terrestre e dando quindi a queste creature una sorta di adattabilità universale al mondo di cui rappresentano parte della forza.

Il Wingelosk, per me un altro figlio della mia sola immaginazione, doveva rappresentare il re assoluto e incontrastato del cielo, non perché fosse il drago più temibile e potente in assoluto, ma perché la sua conformazione fisica e il suo modo di vivere erano indirizzati solo ed unicamente per un esistenza aerea.

Fondamentalmente l’idea base era quella di una creatura in eterno volo perché se solo scendesse a terra sarebbe vulnerabile anche ai predatori più comuni, per questo lo avevo munito di ali enormi e di un corpo relativamente piccolo, di zampe anteriori robuste adatte ad afferrare le prede e sbranarle in volo, ed infine di una coda prensile munita di un arpione osseo aggiunto solo in seguito alla mia prima rielaborazione.





Il primo bozzetto del Wingelosk ci presentava questa creatura come una sorta di drago deforme, la cui unica fortuna era quella di possedere delle ali maestose, in grado di renderlo temibile e potente nel suo ambiente naturale ,il cielo






Il mio rifacimento intendeva dare al Wingelosk una nuova forma, un drago che non era deforme ma che rimaneva comunque terribile, sia nell’aspetto che nel modo di cacciare, una creatura i cui arti e le cui caratteristiche fisiche stavano ad indicare un forte adattamento alla sua condizione di essere celeste, anche il colore infatti era la chiara evidenza di tale adattamento.

Storia riadattata del Wingelosk dal quaderno di “Monsters”.

“Altro esponente delle razze primordiali, il Wingelosk era un temibile predatore dei cieli, una creatura le cui zanne erano in grado di sbranare in pochi minuti anche animali immensi, una volta arpionati con al sua coda e afferrati con le possenti zampe anteriori.
Era molto vulnerabile sulla terraferma, a causa del poco sviluppo avuto dalle sue zampe posteriori, e per questo camminava molto lentamente durante le sue brevi fasi vitali in cui era costretto a terra dal bisogno di accoppiamento o dal periodo in cui le sue immense ali facevano la muta della pelle membranosa che le rivestiva .Infatti questo drago conduceva la sua vita perennemente in volo, cacciando e cibandosi con quanto cacciato in volo, mettendo a riposo metà dell’emisfero cerebrale, come fanno oggi i delfini, invece di dormire adagiandosi su qualche giaciglio a terra. Sopravvissuto fino all’avvento delle prime città umane , era conosciuto anche con il nome di torcia alata, dal momento che quando sorvolava le città o i presidi questi subito dopo ardevano di un fuoco distruttore ed indomabile fino all’estinzione spontanea che significava sempre la completa distruzione di quanto bruciava. La sua razza non si estinse mai ma segui un’evoluzione che lo fece conoscere con nomi diversi nel mondo.”

Tecnicamente non ho usato effetti particolari nel mio rifacimento ultimo se non quello che è denominato “Gradient” per l’effetto della luce del sole al tramonto il cielo dove il nostro protagonista sta volando in tutta la sua maestosa eleganza.


Daniele Tartaglia.

martedì 28 agosto 2007

Il mondo delle chat

(psicologia e telecomunicazione)

Oggi principalmente voglio comunicarvi in sintesi i concetti espressi da un articolo che ho letto sul sito e-conomy.it di Alessandro Gamba: “Limitazioni dell'esperienza sensoriale on-line e processi psicologici compensativi in atto”.

L’articolo comincia con “Le tecnologie comunicazionali ad alta velocità possono essere concepite come un contesto culturale in cui l'interazione sociale viene considerata "normale", e può essere studiata al pari dell'interazione che caratterizza altri sistemi sociali.

Di fatto però, le interazioni proprie dei sistemi virtuali sono diverse.

La differenza principale sta nell'effetto del cambiamento di densità della comunicazione, cioè dell' ampiezza di banda. Per ampiezza di banda si intende, in questo contesto, la quantità di informazione scambiata nell'unità di tempo. Stone (1997) sostiene che la "realtà" ha un'ampiezza di banda larga, perché la gente che comunica vis-à-vis in tempo reale adopera simultaneamente una pluralità di modi, discorsi, gesti, espressioni del viso, insomma l'intero bagaglio semiotico.”

Credo che sia meglio chiarire il concetto, fin d’ora ho parlato di banda riferendomi unicamente a frequenze temporali, se si vuole studiare il comportamento umano in termini di tutti i segnali da noi trasmessi durante una comunicazione, bisogna con un minimo di apertura mentale considerare l’enorme rate di informazione protagonista dei nostri discorsi.

Se immaginiamo di essere l’input per un nostro ascoltatore,allora potremmo essere schematizzati come una “sorgente” di onde sonore ed onde elettromagnetiche molto complesse che bombardano il nostro ascoltatore.

Generalizzando, è come se emettessimo un unico segnale complessivo che chiamiamo comunicazione il quale avrà una certa banda anch’esso, definita come l’intervallo tra il minimo ed il massimo di informazioni che possiamo scambiare nell’unità di tempo.

“In Pragmatica della comunicazione umana" (Watzlavick, Beavin, Jackson, 1967) gli autori affermano che l'uomo è il solo organismo che si conosca, che usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici.

Il linguaggio numerico, o digitale, è costituito da simboli che noi solitamente utilizziamo nel parlare e nello scrivere, ed ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia.

Il linguaggio analogico è praticamente espresso in ogni comunicazione non-verbale, ovvero il linguaggio del corpo inteso in tutte le sue manifestazioni: espressione del viso, inflessione della voce, sequenza, ritmo e cadenza delle parole, esitazioni, irregolarità nella respirazione, tensioni di muscoli involontari, e ogni altra espressione non-verbale di cui l'organismo sia capace, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un'interazione.”

In particolare la parte da me sottolineata è indubbiamente un ottimo spunto di riflessione, mi dilungherò magari un'altra volta sulla questione.

“In Internet, e in particolare nelle sue applicazioni più tipicamente relazionali (chat, e-mail), la comunicazione manca di tutti gli indicatori cinetici e para-linguistici sopra descritti e si affida al solo linguaggio digitale scritto.” Generalizzando: ogni strumento comunicativo (telefono, computer…..) opera un filtro sul nostro segnale comunicazione, non solo, mentre il telefono ad esempio filtra unicamente la quantità di informazione trasmissibile (uso unicamente un segnale sonoro…..).

Il computer (in particolare mi riferisco alle chat), priva totalmente la comunicazione tra due individui della componente analogica, cosa impensabile fino a 20 anni fa.

Internet ha rivoluzionato il mostro mondo sicuramente più di quanto immaginiamo. Ciò non voglio dire che sia un fatto ne positivo ne negativo di per se, basta solo essere consapevoli o perlomeno analizzare, le conseguenze che il web ha sul nostro modo di essere.

Possiamo dunque concludere che: “Il linguaggio analogico è il linguaggio della relazione”.

Le chat sono un mondo contraddittorio dato che sono frequentate e ricercate degli utenti che cercano relazioni, ma gli strumenti comunicativi che essi hanno ha disposizione sono inadeguati o per lo meno insufficienti per poterle stabilire.

Come conseguenza di ciò, nelle persone che comunicano in Internet intervengono dei processi compensativi dell'informazione mancante, che si manifestano con meccanismi di proiezione e di attribuzione di senso, e che gratificano inconsciamente le aspettative dell'individuo. Le relazioni virtuali in questi casi possono apparire seducenti perché permettono alle nostre fantasie e ai nostri ideali di essere segretamente soddisfatti.

“L'ampiezza di banda ristretta stimola le capacità interpretative dei comunicanti, provocando degli effetti davvero sorprendenti: spesso le impegna in maniera estrema, perfino ossessiva.”

E’ chiaro che si è considerato solo il mondo delle chat senza comunicazione audio video la quale arricchisce indubbiamente il rate di informazioni ma le persone coinvolte non saranno comunque in grado di interagire l’una con l’altra.

domenica 26 agosto 2007

Vignetta della domenica


Mi scuso per il ritardo con il quale vi porto questa nuova vignetta ma , come suol dire un adagio popolare, meglio tardi che mai.(nda)


Daniele Tartaglia

venerdì 24 agosto 2007

Kittelsen, il padre dei Troll



Un ritratto di questo straordinario artista norvegese ad opera di Christian Krohg .

Tra i soggetti preferiti dagli artisti è inutile negare che speso troviamo leggende popolari o creature fantastiche, miti atavici o fantasie recenti ed è raro trovare artisti che siano capaci di trasfigurare le loro opere fino a renderle una versione domestica e quotidiana di una realtà differente.

Theodor Severin Kittelsen è uno di quei pochi artisti che si è spinto oltre il muro dell’illusione artistica per renderci partecipi del mondo che è andato tracciando con la penna o il pennello.

Nato a Kragerø nel 1857, in Norvegia, Kittelsen amò sin da subito il mondo della pittura , infatti cominciò giovanissimo a studiare e a cimentarsi in questa sua passione, riuscendo a suscitare l’interesse di colui il quale avrebbe rappresentato un mecenate per l’artista, Diderich Maria Aall, il quale gli diede l’opportunità di entrare nella scuola d’arte di Cristiania e , in seguito , di continuare i propri studi a Monaco di Baviera.

Dal 1879 in poi Aall non potè più supportare economicamente l’artista che allora cominciò a guadagnarsi da vivere in modo autonomo collaborando con riviste e quotidiani tedeschi, lavorando anche in quel di Parigi , dove molte volte fu costretto a patire la fame a causa della carenza di lavoro, il quale fu segnato dalla difficoltà del periodo passato.

Nel 1889 tornò in Norvegia e conobbe la sua futura consorte, la quale sostenne sempre l’operato del coniuge assicurandogli uno spazio protetto da distrazioni esterne all’interno delle mura domestiche.

Kittelsen , da grande appassionato di folklore scandinavo quale era , riverso nelle proprie tele questa sua passione, specializzandosi soprattutto nella rappresentazione dei Troll, creature grottesche e magiche della mitologia scandinava che si identificano con una razza di giganti.

I Troll nella mitologia nordica stavano a simboleggiare le forze incontrastabili della natura, ed è proprio di ciò che si caricano le opere del Kittelsen, il quale ritraeva i suoi soggetti sempre nel loro ambiente naturale .



Nøkken, 1887-92 ( Lo spirito dell’acqua), meglio conosciuto come “Il Troll di palude



Skogtroll, 1906 (Il troll del bosco),come si può notare il troll in questione fa mostra del suo unico occhio, un occhio dotato di poteri oscuri e terribili secondo la mitologia.

Kittelsen operò sino alla morte, avvenuta a Jeløya nel 1914, rappresentando nelle sue tele anche le altre fiabe del mito nordico, alcune delle quali valutate postume a cifre epocali nella storia dell’arte.

Considerato un artista neo romantico o naive, Kittelsen si presenta com un artista molto conosciuto e apprezzato a livello nazionale, ma poco famoso nel panorama internazionale, restando comunque una personalità artistica brillante nel suo genere e un pittore capace di calare lo spettatore nel mondo rappresentato.



Daniele Tartaglia

sabato 18 agosto 2007

(Al)La scomparsa dei padri del cinema (2): Michelangelo Antonioni

Quando mi venne prestato per la prima volta il film Blow-up ricordo che, dopo la visione, alcuni amici mi domandarono che cosa mi fosse rimasto impresso? Proferii mille teorie della visione e del cinema come fotogramma da sviluppare mille volte, senza però riuscire ad avere notato il “vento” nel parco che circonda ed impera nel sottofondo la scena madre dello scatto fotografico oppure del ritrovamento del corpo.

Fare caso nel cinema è l’apologia del gusto meno estetica del mondo dell’arte. Se si dovesse riflettere a lungo, il cinema di Michelangelo Antonioni si risolverebbe analiticamente come una monade di Leibniz, ma il problema principale sarebbe avere tempo, non quello materiale, ma quello filmico. Mi accorgo, dopo molto tempo, che se dovessi considerare filosoficamente i suoi film dovrei ricondurre la sua opera alla monadologia leibniziana. Solo così potrei risolvere il “vento” nel particolare della teoria della visione, perché tutto in Antonioni si comprende nel particolare e diviene identico, come identiche sono le sue storie e i suoi soggetti. Varrebbe la pena soffermarsi sulle scene iniziali e finali di Blow-up, del gruppo di ragazzi che mimano il movimento, e la fine del film che mima la cancellazione del personaggio per capire quanto vicino sia il concetto di corpo e il concetto di corpo invisibile, tra la composizione e la scomposizione: in queste immagine è completamente disgregata qualsiasi aggiunta e qualsiasi interpretazione che tenda alla novità, dato che di Antonioni non si aggiunge nulla in modo così netto.

L’altro motivo di ricordo di questo autore, sta nella lentezza, una nota comune che ha fatto grandi proseliti, da Wenders a Lynch, due autori che rivivono entrambi il Deserto Rosso ma in due continenti diversi. Il girare nel tempo, identificare il tempo, renderlo l’avventura del perdersi, non possono prescindere dal volere rendere il reale nel concetto stesso, nella morta lanterna magica di Bergman (o nella stanza barocca dell’odissea kubrickiana).

Come far rientrare l’occhio nel suo contrario è la sfida di Antonioni, che esemplifica al massimo la sua meditazione nel film da lui più amato: Professione Reporter. Non è solo il manifesto della possibilità di fare del cinema come se si facesse senza girare alcunché, ma è la liberazione dell’uomo dal dover stare di fronte ad una macchina da presa, è il togliersi dalla scena, come il personaggio tenta di fare, in un canovaccio illustre e pirandelliano. Ma piuttosto che di teatro, qui la rappresentazione mette in mostra l’essere fuori da qualunque palco, il cinema mostra l’impossibilità di volersi definire arte, filosofia dell’arte, arte concettuale, estetica del bello. Siamo nel campo del sublime mancato, siamo direttamente nella tensione verso un mondo ideale difficilmente identificabile perché è già tutto nel principio di identità. Lo spettatore nell’ultima scena del film viene messo fuori dalla finestra, fuori dall’azione, fuori dal film. Ciò non permette però di essere fuori dalla pellicola, perché il fotogramma resta impantanato nel suo essere completo, nel suo essere sempre privo di nulla nel momento della sua separazione da qualcosa: non si toglie nulla al cinema che non sia già cinema.

Ma tutto era già implicito dal primo sguardo che Antonioni diede alla macchina, nel documentario, nelle sue affermazioni sul cinema e sulla sua logica. Antonioni cerca la verità più che la logica, cerca il rapporto con le cose, con la materia e non il suo concetto, l’intuizione è una confusione che ricerca un ordine, l’ordine nel senso ma non l’ordine sensato. Quasi come Kubrick ma in modo più intrinseco il fotogramma del regista ferrarese è già pieno di tutto l’avvenire, già confusione di un altro film.

Questi due registi (Antonioni-Kubrick), insieme allo svedese Bergman, rappresentano la tensione essenziale per comprendere il concetto di cinema moderno, ovvero di quelle pellicole che girano se stesse e non più altri soggetti, non più “alla ricerca” ma già ricercate.

Bergman è il più prolifico perché il più carico di segni e di fantasmi, ed in questo il più pieno di vuoto o l’autore che più assomiglia all’artigiano che mette in scena il dramma del vuoto nel pieno.

Antonioni si sgancia più facilmente e con meno opere dal dramma, riconsiderando il soggetto nel suo rapporto con le cose, nella nascita di un nuovo dramma che vuole colmare il vuoto, che mette aria tra le cose, o che appiattisce gli interstizi dei prodotti della natura, allo scopo di ordinare il disordine, al prezzo della scoperta e del nuovo tempo: la nascita di un cinema nuovo avviene perciò più con i rimanda alla tecnica di Antonioni che a quella di Fellini (autore, questo, troppo difficile da mettere in scena o troppo facilmente interpetabile da non copiare).

Ciò non significa che un padre possa essere più facile da ricordare di un altro, ma che il concetto di cinema che trasferisce al figlio e ai prodotti dei figli sia più facilmente rivedibile, raffrontabile, atto all’analisi perché nato da uno sforzo di correlare, di rendere vera la possibilità logica, fare di una pellicola la storia di un cinema dell’avvenire nel tempo. Non si può capire il messaggio dei padri del cinema senza legare il loro sviluppo a sviluppi successivi, e questo la figura di Kubrick ce l’ha insegnato, riassumendo il cinema teorico, anzi distruggendolo per noia, e rappresentando la capitolazione in nuovi gesti, in nuove profezie, nell’ immagine ampia che completamente non vuole il vuoto ma lo suscita nel profondo. Lo sguardo ampio e cosmico di Kubrick è già il desiderio di mettere ordine nelle sequenze di Antonioni come di cercare la luce d’inverno dei miraggi di Bergman.

Da un’intervista del 1967: “Oggi sarebbe d’aiuto trovare tutte quelle regole che mostrano come e perché l’universo è fisso- in che modo questo dinamismo si sviluppa e agisce. Allora forse saremmo in grado di spiegare molte cose, forse persino l’arte, perché i vecchi strumenti di giudizio, le vecchie estetiche, non ci sono più di alcun aiuto- a tal punto, che non sappiamo più cos’è bello e cosa non lo è” (Michelangelo Antonioni)

sabato 11 agosto 2007

(Al)La scomparsa dei padri del cinema (1): Ingmar Bergman

Quanto il cinema sia venuto a mancare nelle ultime settimane non ha prezzo, né paragoni. Anche perché essendo un’ arte che più di tutte finge la morte non può che restare sempre indifferente alle sue manchevolezze.

Nessuno infatti si ricorderà la sequenza di un autore passato, proprio perché riprodurla significherebbe vivificarla, renderla non cinema, renderla l’omaggio al funerale senza dopo, senza paradiso, senza rito attendibile. Perciò il cinema e i suoi autori non rimangono nell’immagine quasi mai, ma solo nell’immaginarsi che il cinema riviva un giorno come ogni giorno, come in ogni pellicola che non deve avere maestro ma solo registrazione del maestro che non c’è, un nastro di moebius che appunto non ha bisogno di orientamento perché è già tutto orientato senza direzioni.

Questo disagio, che tende non tanto al mistero quanto alla ricerca di svelare un dettaglio di un mestiere, rappresenta la morte nel cinema, la morte del cinema, l’ossimoro più tragico-comico dell’opera d’arte nella sua autoriproduzione millenaria. Chi cominciasse ad avvicinarsi alle immagini filmiche attraverso Bergman o Antonioni rimarrebbe sconcertato al punto da non voler più vedere. Non è accecamento ma la fine dell’inizio. Cominciando da loro, inserendo in loro la mitologia kubrickiana e la lanterna lumieriana, si dispiega ciò che rende inutile l’atto del vedere, che lo trasforma in rivedere e poi in stravedere. Non è estetica ma controestetica, è rendere l’opera d’arte un fuori dall’opera. Di solito avviene il contrario, anche nelle manifestazioni concettuali dell’arte, nel prodotti che si fa filosofia provenendo dal pattume, dall’orinatoio a Duchamp, ma nei film il tutto ritorna ad essere tutto: filosofia del non ritorno, del non morto, filosofia del morto vivente che vede (ma cosa? la sua immagine che non vede allo specchio, o la nostra che vede lui che non si rispecchia?).

Lo sconcerto per il semplice atto del vedere mi ha condotto alla passione per la filosofia, per la conoscenza dell’amore (non per l’amore della conoscenza), l’amore del tutto che rimanda a tutto, anche al fotogramma più inutile, dato che il giudizio non si fa critica in un film, rimane saldo di fronte alla mancanza di critica, di biasimo, di stupore, di cordoglio, e sì anche di dispiacere per una perdita che pare la continuazione di una sequenza: adesso il regista muore, la troupe va via, rimane lo spettatore. A chi spetta la parole fine nel cinema sembra essere una mancanza di gusto, un disgusto del tecnicamente chiuso, della chiusura ermeticamente insondabile eppure ripercorribile all’indietro, palindroma-si rilegge la stessa cosa, fine od enif: un ammasso di tutto.

Ma allo sconcerto deve corrispondere, per una sorta di nostalgia del ritorno a casa senza padrone, anche il consiglio: cosa vedere di due registi appena morti?. Tutto è la risposta più adatta secondo quanto finora detto, ma non basta. Di un regista si deve anche aver letto, le sue parole, i suoi lavori, le critiche altrui, i libri e gli autori che stimava: un lavoro infame ma necessario.

Di Ingamar Bergman sono rimasto folgorato da “Luci d’inverno”, non per la luminescenza, ma per la trasfigurazione che man mano diventa figurazione del significato di essere “padre” o di essere un buon “padre”, un buon pastore per una comunità di pochi fedeli, essere un buon figlio e un buon marito, e soprattutto continuare a dire messa nonostante si dubiti della passione del vero padre, il Cristo.

Una parabola estesa in appena due ore di narrazione in cui è consolidato il rapporto con il senso del “sacro” più desolante e illusorio del cinema, quasi fossimo di fronte all’ Overlook hotel, e il gioco della mancanza del senso in un rito venga salvato dalla luce gelida che riconduce il trauma o la crisi del quotidiano nella sfera indeterminata ma dritta della fede (la fede nel Dio che è sempre una ricerca del padre e del figlio che compiamo in ogni atto del nostro lavoro).

Si, il sacro e la dimora della lanterna magica che ricrea il sacro nell’illusione di poterlo vedere alla luce, sono i motivi che più di tutti mi hanno spinto ad esaminare e stravedere opere a volte che mancavano di padri, che mancavano di luce, isolati come specchi, ma sempre alla ricerca dell’immagine che renda il silenzio e continui a far vedere la casa vuota (senza focolare).

Bergman è il regista del silenzio della scena, una scenografia che non è mai quella di un cinema, ma sempre di un teatrino della marionette, nonostante il lavoro di questo regista abbia toccato tutti i livelli tecnici della sua epoca. Ma anche il regista delle parabole, e del senso di semplicità che il racconto deve filosoficamente augurarci: dalla parabola mortifera-pittorica del “Settimo sigillo” alla sonata degli spettri familiari di “Sinfonia d’autunno”.

“Sussurri e grida”, il rosso e rumori di fondo tra una scena ed un’altra, come in un circo, così vicino al baraccone felliniano e al frammento satiricon di un passato che vive la sua disgrazia al cinema, un passato che si mette in scena, in costume, nel sangue del ridicolo per la sua vicinanza-assenza a quell’orologio che marca e manca sempre il palcoscenico della rivalsa familiare. Fellini e Bergman erano amici, spesso vedevano i lavori reciproci e ne rimanevano esterrefatti. Il terrore dei loro occhi per l’immagine dello stesso effetto-cinema mi ha sempre incuriosito, facendomi interpretare le sfere di entrambi in bilico tra l’ironia del tragico e il dramma della festa.

Come non si finisce mai di giocare con la morte, così Bergman non ci lascia mai finire di giocare con il cinema, come non ci lascia mai dire di no, di finire una storia, dato che non si può mettere fine al teatro. Nel momento in cui c’è stato un fiat, il cinema è nato per suscitare la sua morte in primis, quella dei suoi autori in perenne continuazione, fino all’esasperazione del complotto, del giallo nel quotidiano, delle marionette che diventano assassini di sé stesse. Non riuscirò mai allora a staccare il filo conduttore dal “Posto delle fragole” a “Un mondo di marionette”, entrambi sulla stessa strada, non perché dalla stessa mano, ma perché nello stesso mezzo riproducono il mondo che si guarda allo specchio e non può non ritrovarvi che tutto quello che c’era stato. Quando allora l’autore dello specchio se ne va, non rimane che l’immagine del mezzo, come era sempre successo, come in uno specchio che per natura non restituisce il suono, ma che per ritualità ristabilisce il silenzio e nel silenzio non rivela la sua immagine (quella dell’autore di tutte le cose, del padre di tutti i figli, del regista di ogni lanterna).

Da il “Posto delle fragole”: “ Scivolo facilmente in un mondo crepuscolare di ricordi e sogni assolutamente personali…E’ come se cercassi di dire qualcosa a me stesso, qualcosa che non voglio udire quando sono sveglio…Che sono morto pur essendo vivo".

venerdì 10 agosto 2007

Il decoupage e l'arte a portata dei molti

Dopo una settimana di “vacanza” dal MAT causa imprevisti, torno a scrivere sul blog sottoponendo alla vostra attenzione argomenti di riflessione e la trattazione di una tecnica artistica che ha oramai preso piede ed è diffusissima, grazie anche alla creazione di apposite strutture e catene di negozi ,grazie ai quali i materiali sono sempre più reperibili.

Non è sempre facile portare avanti una passione quando la carenza di materiali porta indiscutibilmente alla carenza di tempo, il quale teoricamente si dovrebbe dedicare a quella passione prima che svanisca nel tedio della quotidianità o che venga sostituita da una nuova .

Il decoupage sembra oggi aver trovato un posto comodo tra le passioni artistiche coltivabili anche a tempo perso, merito soprattutto della semplicità dei materiali utilizzati e della tecnica rappresentativa che non è mai uniforme ma può variare a seconda del gusto dell’artista decoratore.

Il decoupage è una tecnica decorativa , il nome della quale deriva dal termine francese decouper ovvero ritagliare, ciò ad indicare l’azione che si effettua prima della decorazione vera e propria di oggetti di uso comune e non, oggetti umili come un innaffiatoio o di antiquariato come può essere una vecchia saliera ai quali , di solito si vuole dare un tocco di rinnovamento e colore attraverso tale tecnica.


E’ stupefacente osservare come il decoupage rende gli oggetti più banali delle vere e proprie opere d’arte volte ad abbellire o ad arricchire l’arredamento domestico nonostante la loro semplicità intrinseca.


Il Tutto inizia con il trattamento della superficie sulla quale si andrà ad operare, per esempio le superfici ruvide richiederanno un lavoro di carteggiatura, richiedendo talvolta l’utilizzo di fondi particolari sui quali stendere il colore, come quelli di gesso o carta, mentre invece quando si opera superfici completamente lisce bisogna ripulirle da qualsiasi residuo di polvere o altro con un panno imbevuto di alcool. Dopo il trattamento e la stesura del colore ,smalto o acrilico, si passa alla fase della decorazione dell’oggetto selezionato.
Per decorare l’oggetto si possono comprare delle carte da decoupage, alcune definitissime e già ritagliate, altre da ritagliare, oppure prendere le immagini desiderate da riviste o giornali, potendosi usare per questa tecnica qualsiasi tipo di carta.

In seguito con della colla si procede alla fase dell’incollaggio, che deve essere molto accurata così da non formare delle bolle d’aria. Dopo una prima mano si passano mani ulteriori di colla, con lo scopo di ottenere una superficie liscia sull’oggetto decorato .Tale superficie andrà poi rifinita con colori acrilici o smalti, consigliati i primi perché più facili da trattare.

L’effetto finale deve esser quello di non poter distinguere dove inizia la carta applicata e finisce l’oggetto decorato, quindi l’uniformità tra decorazione e decorato e la compenetrazione della parte accessoria nella forma principale.

L’essenza del decoupage è quella di un’arte che si avvicina sempre di più anche ai meno talentuosi in campo figurativo o artistico, una sorta di arte fai-da-te accessibile a tutti o comunque ai molti che l’apprezzano.

E’ un discorso questo che riguarda un po’ tutte le arti, negli ultimi decenni, e anche quella figurativa non è rimasta incontaminata dal progresso tecnico e tecnologico, dall’avanzata di macchinari e software in grado di riprodurre in un istante opere che un tempo avrebbero richiesto mesi o anni di lavoro.

Non è un punto di vista critico il mio, ma semplicemente uno sguardo nostalgico all’arte del passato, fatta di studi approfonditi e calcoli fatti con il foglio e l’inchiostro, senza nessuna entità virtuale a farli per l’artista, il quale non a caso rimaneva nella storia come una personalità geniale, meritevole del nostro studio e rispetto.

Certo è, che l’arte in questo modo si è avvicinata all’uomo come non mai nella storia ,ma ci regala raramente le emozioni del passato, producendo ottimi lavori che, dal punto di vista tecnico, non presentano lacune o difetti.

Quello che mi chiedo io allora è: ”Si è forse scatenata una reazione in continua (d)evoluzione , in cui l’arte sarà si sempre più vicina alla perfezione ma anche più piatta agli occhi dell’appassionato come a quelli del semplice spettatore?”

La risposta, non semplice da trovare o cercare, non si può banalizzare con la semplice osservazione del presente stato delle cose, ma solo in un futuro spero prossimo, scopriremo quanto sia retorica o meno.


Daniele Tartaglia