mercoledì 26 dicembre 2007

Breve storia dell'hip-hop

Parte III – La Golden Age dell'Hip-Hop



Negli anni '90 l'hip-hop esce dai ghetti neri e conquista il mondo, diventando il suono dominante negli stereo dei giovani di ogni parte del globo, con il conseguente sviluppo di scene locali fuori dagli USA.

Se la scena newyorkese si raffina grazie all'apporto di artisti del calibro di Nas, Gangstarr, Wu-Tang Clan, le novità più importanti vengono dalla West Coast, ed in particolare da Los Angeles, dove al sound più elettronico e sperimentale di New York si preferisce l'uso massiccio di samples funk e soul ottenendo così un suono più caldo e potente.

Anche le tematiche trattate dai rapper della costa occidentale sono molto diverse: se a NY si parlava di street culture, stile, competizione artistica, a LA si parla di armi, macchine, soldi, vita da gangster.

Nasce il cosidetto gangsta-rap o g-rap, di cui sono massimi interpreti l'ex spacciatore Snoop Doggy Dogg e soprattutto Tupac Shakur. La rivalità fra East e West Coast diventa fortissima, soprattutto nel duello fra Tupac e il newyorkese Notorious BIG, iniziato a colpi di rime verso il '95 e culminato tragicamente a colpi di pistola con gli omicidi di Tupac nel '97 e Notorious nel '98.

Emanuele Flandoli

venerdì 21 dicembre 2007

Sensibile ed intelligibile

Un discorso sulla riproduzione del suono nel corso del tempo (seconda parte)

Le immagini, dicevo nella prima parte, sono fondamentali.Vediamo come rendere allegorico questo discorso tramite il sussidio della pittura:



Due raffigurazioni che contemplano due miti e due epoche, due visioni e due cicli della vita. Non stiamo parlando però di stile ma di emanazione dai colori e dalle figure: forme di altri tempi che rimandano ciascuna a funzioni musicali alquanto complementari.

Da un lato la danza del tempo, dall’altro il tocco senza tempo e senza valore. Il grande passaggio dal naturalismo all’impressionismo segna anche il passaggio tra il senso comune e la teoria del senso, come anche il passaggio dalla metafisica della visione alla teoria della percezione visiva. In tutto questo il vedere come conoscere man mano perde la sua consistenza sigillante, riscontrando un cammino tortuoso e parcellizzato che non fagocita il sensibile depurandolo fino alla species intelligibile desiderata, ma divorando le intelaiature intelligibili delle nostre sensazioni immediate fino al limite ultimo, all’ultima ratio, alla categoria del quanto e del numerato, della traslazione senza un davanti ed un didietro, invariante rispetto ad ogni gruppo di trasformazione: la definizione stessa di geometria si sostituisce a quella di sensibile e non conviene più avere una sensazione di qualcosa ma sempre una interpretazione del dato prima di ogni sensibilità.


Ciò non è ovvio perché i piani fisici e quelli culturali sussistono sempre ed ovunque: il corpo e l’anima giammai si seguono a vicenda, capitando spesso al primo di non poter rigettare di colpo la sua presenza nei confronti di uno spirito libertino. Il dialogo tra la strutturazione del nostro orientamento e la realtà di una tale struttura non avviene mai per pause o per decreti, ma attraverso una continua ed esasperante richiesta di senso da parte di ognuno dei pretendenti al trono della validità del mondo.

Ma in che modo due opposti e due opposizioni possono sussistere nello sviluppo e nella storia delle idee?


Analizziamo il primo modello di organizzazione dello spazio e del tempo. Il dipinto di Poussin della prima metà del Seicento è intitolato “La danza della vita umana”, ed è piena di segni, non solo pittorici ma soprattutto agrari e cosmici. L’elemento della danza, elemento al centro e nella prospettiva in basso e in quella in alto, non può che essere un suggerimento, una allusione, un disincanto ed infine una provocazione salvifica nei confronti del ritmo definito e programmato dei limiti laterali del contorno naturale.

Senza dover per forza decifrare, non si può prescindere dall’allegoria, e la codifica dell’immagine è affare di poca importanza se non si apprendono i sensibili notati immediatamente come fotogrammi della vicenda reale e dello spirito che tiene il mondo.

In modo brusco potremmo azzardare nel dire che l’antico non fa allegoria ma fotografia del reale, e il naturalismo che traspare, insieme al ricordo di forme classiche, non è una tipologia o peggio un clichè da riverberare, ma un potente modello radicato nella corteccia visiva e se vogliamo, nel caso dei suoni, nella coclea che trasmette alla percezione uditiva il messaggio della membrana timpanica.

Ecco, il messaggio non c’è mai, in un caso come quello della danza nella vita, per dover suddividere e comporre il reale, per doverlo incasellare in parti e zone; il messaggio avviene senza doverlo ricevere, è già il suono che stimola il muscolo o le ossa, si personifica nella contemplazione dei due bambini che rivelano l’ovvio gioco del pressappoco e dell’arguto, del fragile e del meccanico, tra il gioco delle bolle di sapone e la clessidra che ci ricorda il time, il tempo civile diverso da quello che (ci) fa ballare.

Ricordiamo il tango, l’immagine del toccare e dei sensi prima dell’ordinamento discreto della materia, un passo che trasmette primariamente una percezione fisica del partner, un dialogo della titillazione tra mani, gambe e ventre, nonché un distacco a volte totale dalla pelle dell’altro, proprio come il movimento dell’aprire e del chiudere del bandoneon, strumento che rimanda per natura e struttura alla respirazione senza dover aspirare aria dal torace l’esecutore ma bensì l’ascoltatore-ballerino.

Questa penetrazione della danza e del toccamento non può che essere una riproduzione della parabola antropologica dell’uomo nelle sue funzioni vitali: tatto, respirazione e circolazione (dall’aria al sangue il passo è breve). Ma il parallelo non può limitarsi alla sussistenza in vita ma deve sfondare il ciclo biologico per penetrare più a fondo l’origine armonica della nostra attività mortale: le quattro figure danzanti sono effettivamente il modello della Povertà, della Vita industriosa, della Ricchezza e della Lussuria.

Incastonate e tenute per mano seguono la nascita, l’aumento, il culmine e la discesa dell’uomo, dello stato, della storia, degli avvenimenti e delle loro re-volutiones, ossia dei loro ri-cominicamenti e del loro re-volvere continuo: il continuum appunto opposto al discretum. Non c’è misura nel mondo terreno ma solo un passaggio continuo di luce e di ombra, di stagioni in stagioni, le quali non fanno che seguire il carro del Sole e le Ore, loro si immutabili, le sfere celesti che mai si vedono perdurare tra l’acerbo il maturo ed il marcio.

Abbiamo così risolto in pochi riferimenti un quadro della visione del mondo antica e premoderna, che sussiste nel senso comune e nelle società agrarie e che fa si che la riproduzione degli atti quotidiani sia regolata da un processo difficilmente trasferibile dall’artigiano al prodotto finale: non possiamo comprende l’assenza di riproduzione meccanica se dimentichiamo l’assenza del bisogno di misurarsi dell’uomo comune di fronte alle intemperie dei quattro elementi (non ho bisogno di conoscere le previsioni meteorologiche per essere certo in burrasca d’aver “sfidato gli elementi”).


Davide De Caprio

giovedì 6 dicembre 2007

Breve storia dell'hip-hop

Parte II-Old school




Tutta la prima fase della storia dell'hip-hop si svolge in modo assolutamente underground, e soprattutto senza lasciare testimonianze discografiche. Il mondo arriva a conoscere l'hip-hop (già molto diffuso fra i giovani ma solo nella città di New York), solo nel '79, quando la Sugarhill Records, etichetta soul, raduna un team di quattro rappers, chiamato Sugarhill Gang, e ne incide una jam sul groove di “Good Times”, successo degli Chic. E' la prima uscita discografica ufficiale di musica rap, l'hip-hop si fa conoscere per la prima volta dalle masse, con ottimi risultati, tanto che negli anni '80 si moltiplicano i gruppi rap. La scena resta però ancorata alla sola New York (con rarissime eccezioni). I massimi esponenti di questa prima fase sono Afrika Bambaataa (fondatore della Zulu Nation, movimento pacifista hip-hop con milioni di iscritti nel mondo), i Run-DMC, trio che sbanca le classifiche di vendita americane e detta l'evoluzione dell'hip-hop per un quinquennio, e i Beastie Boys, primo gruppo rap composto da bianchi (e per questo molto contestato dai neri). Fondamentali in questa fase anche i contributi di Public Enemy (che esaltano il lato conscious e militante del movimento), KRS-One, paladino dell'hardcore, Busta Rhymes, Native Tongues.

martedì 27 novembre 2007

Sensibile ed intelligibile

Un discorso sulla riproduzione del suono nel corso del tempo (prima parte)


“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?” Vangelo di Matteo 5, 13

Non credo sia facile per nessuno mettersi nei panni di un antico modello, per di più di un modello di cui ignoriamo l’immagine. Avere una idea di qualcosa non significa tenerla nel pensiero senza alcun riferimento sensibile, ma presuppone una trasformazione, una impressione, un atto che forgia o rende quel fatto artefatto per noi, temperato e scremato, pronto per essere giudicato una volta acquisito l’input. Infatti, proprio di input parliamo oggigiorno, di informazione in entrata e in uscita, ma soprattutto della incapacità di risalire all’origine dei dati: nel momento in cui il dato è stato spiegato nelle sue parti, risolto e sciolto da ogni vincolo, non ci rimane che rilasciarlo o immagazzinarlo senza rendere conto del perché si possa chiamare un semplice ingresso o scarto di informazione un “dato”. Per carpirlo bisogna già servirsi di uno schema e di una organizzazione, meccanica o elettronica, valvole o cifre, leve o circuiti. La percezione della genesi di una tale forma di strutturazione fisica non rientra in un percorso naturale ma artificiale, dove la ridondanza del procedimento di creazione vince sulla irreversibilità della produzione incerta della natura.

C’è una grande differenza tra un procedimento ed una produzione spontanea; come accade nella divisione tra natura e cultura, tra processi biologici e ordinamenti regolabili, il senso e l’orientamento non possono nascere se non si passa dalla razionalizzazione di ciò che per natura è senza informazione alla teoria dell’informazione dei processi visibili in natura senza aver disorientato il mondo o almeno averlo fatto esplodere nella sua assoluta gerarchia dei valori e dei doveri. Il concetto stesso di genesi rompe ogni contatto con le generazioni delle forme da parte di un unico modello accertato: non ci sono modelli ma creazione -nel tempo-di immagini del mondo che non possono che riflettere la struttura sociale e antropologica di un insieme di individui di fronte ad una delle tante interpretazioni della natura nella cultura.

Da ciò sembra essere non facile neanche il passaggio dalla inviolabilità dei piani alla intimità della casa nella produzione del pensiero e nella percezione delle cose. Il sapore del mondo non cambia nello stesso modo in cui la natura tende a svilupparsi, le immagini del mondo nel tempo riflettono il panorama sensibile in ingresso e man mano combinano i circuiti della ricezione, aumentando i filtri e sminuendo il dato: il dato ha subito nelle generazioni una frammentazione e assimilazione sempre più ossessiva, quantizzata al millimetro, ridotta all’osso, priva della qualità di una volta e quindi offesa proprio nelle sue pupille gustative. Oggi, nel nostro tempo, non c’è più un sapore del mondo che diviene un sapere del mondo: la nostra prospettiva mette al primo posto il sapere del mondo senza un sapore di riferimento, facendo della scienza una entità esistente oltre qualsiasi sensibilità. Non possiamo allora che chiamarci una generazione dell’intelligibile più che del sensibile, una età della razionalizzazione a tutti i costi senza alcuna assimilazione dei dati. Nell’epoca della riproduzione digitale non si può assolutamente rendere simile ciò che è fuori perché non c’è un fuori senza la percezione del fuori, e l’etimologia della parola “captare” dovrebbe rifarsi non più al greco inghiottire, ma al più odierno “ricerca rete”: il gusto e la presenza del segnale rimangono nella dimora dei segni ma il loro “riferirsi a” nel primo caso rinvia ad un modello universale, nel secondo ad una convenzione momentanea.

Davide De Caprio

giovedì 22 novembre 2007

Breve storia dell'hip-hop

Parte I-Le origini


La storia dell'hip-hop non si limita allo sviluppo del genere musicale che lo rappresenta, il rap, bensì comprende in senso più ampio l'evouzione di questa cultura.

I primi movimenti riconducibili a questo nome si sviluppano a New York, e più specificamente nei ghetti neri del Bronx e del Queens, nella seconda metà degli anni '70: alcuni giovani afroamericani, esclusi dal circuito delle discoteche perché troppo costose, iniziano ad organizzare autonomamente i primi block party (feste di quartiere) in parcheggi e strade del ghetto, sfruttando l'energia elettrica sottratta alla rete urbana.

L'anima di tali party è il dj, con i suoi dischi funk e soul, e i breakdancers, che iniziano a compiere evoluzioni sui cosidetti break, gli stacchi ritmici tipici del funk. Alcuni dj iniziano a mixare a loop i break, per permettere ai b-boys (così iniziano a chiamarsi i breakers) di prolungare le proprie acrobazie, ponendo le basi del sound hip-hop, fondato appunto su loop dalla forte impronta ritmica.

Contemporaneamente gli MC (Master of Ceremony), originariamente dei semplici speaker che annunciavano i pezzi dal microfono e incitavano la folla (sul modello delle dancehall giamaicane), iniziano ad evolvere il proprio ruolo con l'uso di frasi in rima e in metrica, tecnica che prende il nome di rap.

venerdì 2 novembre 2007

L'Equdrak


Oggi vi propongo un mio disegno che , per chi ancora non lo sapesse, fanno parte di un desiderio avuto dal me bambino,di voler creare una enciclopedia illustrata dei mostri di miti e leggende.
Tuttavia non essendo paga la soddisfazione di un bambino quando raggiunge un primo risultato, e da questo dovremmo prender esempio, inventai alcuni di questi mostri per dare uno sfondo anche ad altre creature leggendarie.

L'Equdrak era uno di questi parti della mia immaginazione ed è inutile dire che per disegnare il solo primo bozzetto di questa creatura mi sono rifatto moltissimo alla mitologia greca, della quale peraltro sono un ghiotto apassionato,con la figura del bellissimo e fiero cavallo alato Pegaso.

Proprio qui stava il mio intento, ovvero dare uno sfondo diverso da quello mitologico classico alla figura del magnifico cavallo alato,che così non sarebbe più stato il frutto del sangue di Medusa, ma la discendenza di un altrettanto illustre capostipite, il quale appunto volevo rappresentare nell'Equdrak.

Ma come può un cavallo discendere da un drago?In effetti la domanda sorge spontanea, ma altrettanto spontaneo è un altro dubbio, ovvero:"Pegaso era forse un cavallo normale?E come potrebbe un cavallo nascere dal sangue versato di una Gorgone?"

Quindi mi si perdoni l'eccessiva dose di fantasia , ma come si sa di fantasia i bambini abbondano e così io avevo tracciato questa figura senza nemmeno chiedermi tutte queste cose, semplicemente seguendo gli impulsi della mia fervida immaginazione ispirata da tale figura mitologica,Pegaso.



Ecco il primo bozzetto dell'Equdrak:Come si può notare presentava tutte le caratteristiche che ho mantenuto anche nel mio ultimo rifacimento, quindi si potrebbe dire che sia rimasto fondamentalmente lo stesso disegno, sebbene mogliorato dal punto di vista stilistico.

E avevo tracciato questa creatura con l'intento di creare i presupposti non solo per quanto riguardava la futura generazione di cavalli alati , ma anche con l'intento di dare il via alla specie dei draghi che io ingenuamente, eppur azzeccandoci, avevo nominato "zoomorfi", ovvero draghi che possedevano caratteristiche riscontrabili solitamente negli animali , e che quindi ne ricordavano alcuni esemplari.

L'Equdrak doveva essere una commistione tra la orrorifica figura di un drago e quella gentile di un cavallo,lo dotai quindi di zoccoli, una criniera ispida che terminava in una soffice coda e ali piumate, il tutto sorretto da una possente muscolatura coperta da squame di smeraldo, come quelle di qualsiasi drago, adornata da zanne , occhi infuocati e zanne accuminate.

Storia riadattata dell'Equdrak dal quaderno di disegni intitolatoda me "Monsters"

"La specie dei draghi zoomorfi era nata chissà per quale strano capriccio della natura, difatti i suoi esponenti presentavano nella corporatura e talvolta anche nei comportamenti e nelle abitudini,le peculiarità degli animali a cui somogliavano, animali normali e non mostruosi .
L'Equdrak fu il primo esempio conosciuto di questa specie bizzarra della famiglia dei rettili sputafuoco, ed era stato chiamato a quel modo , nei secoli successivi la sua estinzione ,proprio perchè ricordava lòe sembianze di un cavallo pur essendo un drago.
Infatti non possedeva grandi zampe artigliate, ma zoccoli con i quali schiacciva le prede e che molto probabilmente dovevano avere una consistenza incredibile visto che su questi atterrava,una folta criniera che terminava in un altrettanto folta coda,fatta di peli molto simili al crine di cavallo.Nonostante la sua somiglianza con un animale del tutto erbivoro , L'Equdrak era un drago, quindi completamente onnuivoro, con la naturale predilezione per la carne fresca.Altra caratteristica peculiare di questo animale era che volava ad una velocità incredibile, riuscendo a rendersi invisibile tra le nubi e sfuggendo anche allo sguardo più attento.Questa sua prerogativa non lo salvò dall'estinzione purtroppo, perchè una nuova generazione di draghi, nota con il nome di Draghiene, sfruttava la caccia combinata in branco
e all'Equdrak la velocità non servì a nulla. Proprio la caccia incontrollata da parte di questa nuova stirpe di signori del cielo portò l'Equdrak alla rovina della propria stirpe.
Nel mentre tuttavia alcuni esemplari avevano cominciato a cambiare forma e sangue, dando vita anche loro ad una nuova stirpe.
Da esso infatti discesero tutti i draghi zoomorfi e la stirpe dei grandi cavalli alati."



Il mio primo rifacimento dell'Equdrak presentava una caratteristica, che poi ho eliminato perchè ritenuta da me inadatta, diversa dal bozzetto e dal rifacimento finale, ovvero un occhio soltanto, centrale come quello dei Ciclopi della mitologia.

Passiamo ora agli aspetti tecnici del tutto, perchè sappiate che stavolta ce ne sono parecchi.
Una volta terminato il disegno , ho riempito quegli odiosi spazietti bianchi che risultano nelle linee tracciate, una volta terminata la scansione, e per fare ciò ho usato l'effetto "Pittura ad olio " su tutto il disegno, poi dopo aver colorato il tutto ho usato l'effetto Gaussian Blur sui particolari della criniera, l'effetto Frosted Glass per i particolari dell'erba dove poggia l'animale, nonchè per i particolari del fiume e degli occhi rossi del drago.Ho usato infine lo strumento Gradient per dare alla luna che svetta rossastra nel cielo, una sfumatura spettrale e inquietante.Un prezioso aiuto per la composizione delle squame mi è stso dato dealla modalità Shingle del pennello.

Daniele Tartaglia

sabato 27 ottobre 2007

Vignetta della domenica

Ed ecco anche il ritorno della vignetta della domenica, in questo week-end riguardante i nuovi risvolti delle indagini sui fenomeni apparentemente paranormali in quel di Caronia(Sicilia).


Daniele Tartaglia

venerdì 26 ottobre 2007

Il mio ritorno sul MAT con John Jude.

Dopo un lungo periodo di degenza, non solo mio ma anche del mio pc funestato dagli errori del fyle system, torno a scrivere di nuovo sul MATblog, proponendomi di rifarlo con la stessa costanza che vi ha accompagnato per tutta l'estate da poco trascorsa.

Tralasciando il mio auto-ben-ritornato ( e aggiungerei anche "era ora che ti decidessi")voglio parlarvi del nome misterioso che compare nel titolo di questo articolo, molti di voi infatti si saranno chiesti chi sarà mai questo fantomatico John Jude con il quale riapro le mie danze sul commentario di Musica Arte e Tecnologia.

Si tratta in effetti di un artista americano, nato a Fairview Park nell'Ohio,che è famoso oramai per le sue illustrazioni dedicate al mondo del Fantasy e della Sci-Fiction, altrimenti nota come Fantascienza, illustrazioni che hanno fatto il giro del mondo stampate sulle copertine o nelle pagine interne dei libri che vanno ad adornare.

Christopher Paolini , l'autore della trilogia dell'Eredità (per intenderci quella di cui fanno parte Eragon ed Eldest), lo annovera tra i suoi artisti preferiti , tanto da donare a uno dei luoghi del suo mondo fantastico il nome di tale artista, delineando così la Valle di Palancar.

Suoi infatti sono i meravigliosi "ritratti" dei draghi sulle copertine dei primi due libri di questa trilogia, ma quello che spesso non si sa è che le sue illustrazioni fanno capolino anche sulle copertine di libri ben più remoti e famosi di quelli di Paolini, senza nulla togliere al giovane scrittore.

Le opere di Palancar vanno ad ornare le copertine dei libri di autori quali H.P. Lovecraft, Ursula LeGuin,Marion Zimmer Bradley, Octavia Butler, Stephen King e Charles deLint,proprio per questa loro vicinanza con il genere di cui queste opere letterarie sono fiere esponenti, che quindi spazia dal gotico al fantastico, dall'orrore al fantascientifico con una fluidità che ricalca il solito stile dell'artista in questione.

Prima di divenire un artista famoso, ha "prestato servizio" presso le giurie di molte competizioni internazionali di arte, essendo un artista impegnato sotto tutti i punti di vista e viaggindo per il mondo che richiedeva la sua presenza, ora come collaboratore , ora come candidato a premizioni illustri.

Tra i premi ricevuti nella sua carriera ricordiamo una medaglia d'oro e una d'argento ricevuta dalla"Society of Illustrators", due "Gold Boook Awards"ricevuti dalla Spectrum,un "Best Hardcover Award" e due "Best Paperback Awards" per tre anni consecutivi presso la "Association of Science-Fiction and Fantasy Artists".

Il suo lavoro di artista lo ha portato a collaborare con la rivista Giapponese "IDEA Magazine" e alla partecipazione del "on-going artist-in-residence program" a County Kerry in Irlanda, dove dipinse i lavori ora inclusi nella mostra "Images of Ireland"del National Museum di Dublino.

Tuttora attivo, questo artista può vantare una fama altisonante, tant'è che alcuni suoi lavori fanno già parte di importanti collezioni artistiche private di molte famiglie facoltose degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il mio giudizio penso che Palncar faccia parte di quella stirpe di artisti capaci di catapultare il lettore o l'osservatore nel mondo da lui tracciato,talento di cui ho già parlato a proposito di Dorè o di Black , capacità che non è rara tra gli artisti, ma che raramente raggiunge livelli così affinati come per questo artista.



STORM WORSHIP (The Storm Twins),un'opera di John Jude Palancar

Daniele Tartaglia

mercoledì 24 ottobre 2007

L'unità del reale (parte 2)

Abbiamo parlato di come a livello macroscopico il fenomeno del suono e delle radiazioni elettromagnetiche si presentino sotto forma di onde, governate dunque dalla medesima equazione.

E’ naturale chiedersi se anche a livello particellare, atomico, sia la stessa cosa, ovvero i due fenomeni siano simili.

Per parlare circa il loro conportamento a livello microscopico, bisogna rimandare a concetti di fisica quantistica.

Per chi non fosse a conoscenza dell’argomento, lo si può sintetizzare in alcune frasi:
All'uomo non è dato di "conoscere" la realtà fisica con la precisione che desidera. Vi è un limite invalicabile insito nella natura stessa delle cose.”

A livello macroscopico i corpi non compiono traiettorie continue. Si puo parlare solo di probabilità di trovare un corpo microscopico in una posizione non si puo in generale dire nulla circa la posizione stessa.

Questi principi sono in apparente antitesi con il "buon senso". La meccanica quantistica è infatti una grande dimostrazione di come il cosiddetto "buon senso" sia erroneo e fuorviante, perché prodotto dall'esperienza di vita in un ambiente di cui i nostri sensi ne avvertono solo alcuni aspetti.

A livello microscopico i due fenomeni fisici in analisi si comportano come treni di pacchetti do energia che interagiscono con la materia circostante.

Nel caso di onde EM si chiamano fotoni, ogni fotone trasporta una quantità di energia data dalla legge di planck:

E = h ν

dove ν è la frequenza della specifica radiazione; h è invece una costante.

Si possono da ciò trarre due conclusioni importanti:

1) Più il fenomeno elettromagnetico è ad elevata frequenza più i fotoni che lo compongono possiedono energia, ovvero arrecano maggior “danno” alla materia.

2) Si può trattare un onda come fosse un treno di quanti e la sua interazione con la materia come l’interazione di un solo fotone con uno specifico atomo.

Per il suono si parla invece di fononi.

Comunemente si definisce fonone: una quasiparticella che descrive un quanto di vibrazione in un reticolo cristallino rigido.

Non si trovano facilmente articoli o trattazioni di fononi correlati alla musica o in generale al suono.

In generale i fotoni sono scomodati quando si analizzano onde elastiche in mezzi solidi.

Quello su cui mi premeva attirare l’attenzione è come a tutto tondo e non per forzatura dell’uomo fenomeni che si manifestano sotto forme differenti siano in realta dovuti a simili cause microscopiche.

Su questi presupposti c’è addirittura una branca della fisica detta fisica vibrazionale, che cerca di ricondurre tutti i fenomeni fisici conosciuti a fenomeni vibratori microscopici, ipotesi che alla luce di quanto detto non sembra poi così assurda…..

Ilario Ferrari

giovedì 18 ottobre 2007

Percezione immediata e armonia: da Platone a Boezio

Uno degli aspetti più importanti per capire come si svolge l’apprendimento della musica oggi, ossia in che modo ascoltiamo e interpretiamo del materiale sonoro, è il ruolo che la musica svolge rispetto alle altre branche del sapere. Ed il rapporto di oggi è nullo. Nella divisione delle arti liberali accanto al trivium (retorica, grammatica, dialettica) vi era un quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Ciò non spiega ancora molto, perché una divisione ha sempre luogo da una unione più omogenea. Il musicologo Ernest McClain, decodificatore del pensiero antico, ha cercato di derivare dalle teorie matematiche e planetarie tutte le strutture della religione pagana e cristiana, nonché la teoria musicale connessa. E c’è del vero. Non perché porti prove soddisfacenti ma perché nel suo apparato complesso, al limite tra numerologia e pensiero magico, ci fa riscoprire ciò che all’origine doveva sembrare il suono e la sua composizione: dove appunto l’origine dell’ascolto è l’inizio dell’interpretazione della natura.

Sono convinto che non si possa ascoltare bene se non si è coscienti che l’ascolto moderno è già di per sé relativo, neutro e senza senso. O meglio, il senso è già supposto, è già innestato, ma non si comprende il perché debba esistere e il perché l’uomo abbia bisogno di senso per l’esistenza.

Karl Lowith diceva, a proposito del senso della storia:

“…il discorso sul senso della storia non concerne solo l’unità e la totalità di ciò che noi chiamiamo così semplicemente “la storia del mondo”, per cui pensiamo soltanto al nostro mondo umano e ignoriamo il restante mondo, bensì tale discorso implica anche un senso nel significato di scopo o meta a cui la storia tenda nella totalità del suo moto….il senso di tutte le cose che non sono già per natura così come sono, bensì sono volute o create da Dio, o dall’uomo, e che perciò potrebbero essere anche diverse o non essere, si determina dal loro scopo. Un tavolo è ciò che è per il fatto che in quanto scrivania o tavolo da pranzo rinvia a un “perché”, per cui esso esiste. Anche gli accadimenti storici rimandano oltre se stessi, in quanto l’azione da cui sorgono mira a qualcosa in cui il suo senso si compie come scopo” (Sinn der Geschichte, 1956)

Nel tempo si sfugge al senso o per lo meno si salva una sua applicazione alle cose, ossia lo scopo, la cui desertificazione più secolare è rappresentata dall’utilità. Utile e neutro si fondono nell’unico senso del mondo moderno, nella filosofia sottesa ad ogni atto quotidiano; lo stesso atto misericordioso della carità verso i più indigente perde senso se non è corredato da un pieno senso morale (religioso o mistico) e non da una pura questione di moda dei tempi (religione fai da te, supermercato liturgico laico-ateo).

Le analogie sono importanti e sfuggenti, come quelle che possiamo allargare al caso della musica, prodotto in bilico fra l’arte e la scienza, di difficile interpretazione perché di facile dispersione: la musica non è affare esclusivo di alcun campo, nella fisica è uno sviluppo del moto periodico e nell’arte un gioco estetico di regole canoniche e di sensazioni. Oltretutto è uno degli ambiti in cui la moderna tecnologia è riuscita a fondere il concetto informatico di digitale e la modulazione del suono e dello studio di frequenze standard per una perfetta riproduzione estetica: nonostante la bravura dell’ingegnere del suono, il risultato trattato solo digitalmente rimane un numero ed un artificio della macchina di cui l’uomo rimane un sorvegliante (“ Si potrebbe caratterizzare la macchina dell’età elettrica-ed ancor più dell’età “elettronica”-con la sua pulizia, la sua precisione e il suo automatismo quasi completo, che trasforma l’operaio da servitore in sorvegliante”. Alexandre Koyre, I filosofi e la macchina )

Altro problema è che nonostante la quantificazione, il suono è suonato comunque da una persona e riceve uno stimolo ed una scelta difficilmente interpretabili tramite algoritmi. Ma il rapporto moderno con l’automatismo in musica è sempre inquadrabile nella sfera dell’utile e del pratico, dove alla difficoltà delle antiche incisioni su disco in presa diretta si sostituisce l’icona del software che può tagliare anche ciò che era non voluto in una esecuzione (si può sbagliare o non sbagliare ma si è certi di essere tagliati e “remixati” anche dopo avere suonato).

Non ci interessa neppure, in questa sede, la pratica ancora diffusa dell’utilizzo di missaggi in analogico su digitale. E’ chiaro che non si passa mai totalmente da una tecnologia antica ad una moderna, ma esistono fasi ritornanti indietro e grandi slanci in avanti, dato che la tecnica non è una scienza, e l’approdo alla tecnologia resiste sempre ad una vecchia tecnica o ad un’ anziana tecnologia ormai dimenticata. Questo punto è di massima importanza anche per il piacere dell’ascolto. In ogni macchina nuova si rivede il vetusto utilizzo della precedente, anzi lo si ricerca e lo si reinventa con tratti modernizzati: non c’è mai un passaggio netto dall’illuminazione a gas alla lampadina a filo incandescente, né un netto passaggio dal 33 giri all’Ipod, e ciò è dovuto non solo per principi di costruzione standard o per teorie della costruzione universalmente valide, ma anche per la nostalgia del vedere nel nuovo l’antico e nell’antico il nuovo.

Il discorso sul senso è centrato proprio in questi ritorni, e si illumina di nuova luce quando bisogna interpretare il senso di una antica pratica rivolta ora nel futuro, cercando così di intravedere se il bisogno dello scopo rimane lo stesso, si svuota di significato oppure resiste nella nostalgia, magari velato da bisogni secondari o per utilità falsate dal quotidiano: l’ascolto moderno non può essere decodificato se non si presuppone il senso da cui è partito, anzi solo presupponendo il senso possiamo spiegarci la mancanza di senso e la neutralità della secolarizzazione che colpisce inevitabilmente tutti i campi del sapere, compresa ogni forma di avvicinamento alla musica.

In principio, in epoche premoderne (civiltà classica e medioevale), non esisteva il concetto di riproduzione fedele. La natura ha un suo corso, le opere umane si strutturano seguendola e difficilmente si può ingannare la qualità delle cose terrene nonché delle cose celesti che guidano il cosmo. Soprattutto non viene concepita la riproduzione come atto che l’uomo riesce a formare in un’opera: l’artigiano o il meccanico non possono costruire utensili che riproducono il movimento esatto della natura, ma ne possono rendere solo una certa intelaiatura geometrica, comune a tutte le cose naturali ed artificiali, ma non ne costituiscono mai l’essenza.

L’essenza delle cose è al di là della geometria, prima dei calcoli deve esistere una qualità che forma la materia: la materia ed il movimento non bastano per Platone o Aristotele.

Il pensiero antico non è comunque così semplice da permettersi una distinzione tra natura e arte molto rigida, dato che la natura stessa non è unica e si legge sotto tanti caratteri diversi, mentre l’arte non ha lo stesso valore se viene impiegata per scopi bellici o per scopi estetici. A differenza della semplicità da cui facciamo derivare il nostro mondo (un big bang, una creazione e poi una complessità per rivelazione o per meccanizzazione), il mondo antico parte dalle relazione e le proporzioni una materia formata, increata, o se generata si sviluppa con una struttura già in potenza ordinata secondo uno spazio assoluto e gerarchico. L’uomo antico e del medioevo non percepisce l’infinito ma solo una volta celeste che gli è familiare e nello stesso tempo lo sbalordisce ad ogni orientamento del polo.

Dalla complessità alla spiegazione del buon senso dei fenomeni celesti e della natura, un Platone o un Aristotele avrebbero visto il mondo diviso in due: un mondo celeste ed uno terrestre. Questa divisione è il frutto del primo atto che l’uomo compie di fronte alla maestà dei cieli comparandola con gli accadimenti mondani; accanto al perdurare di un ordine cosmico la corruzione della nostra esistenza rimane un fatto minore, contraddittorio, complesso, inevitabilmente passivo e regolato dal solo sorgere e tramontare del sole. Ma nonostante le comparazioni, l’uomo non può che proiettare il suo sistema biologico, il primo vero sistema che interfacci la realtà, il filtro dei sensi che ci fa identificare pensieri e cose, paragonare tutto il creato come una sfera al cui interno risiede un corpo ben organizzato e completo.

Di fronte a questa strutturazione dei dati percettivi l’uomo antico e medievale struttura anche la sua scienza e la sua tecnica, rimarcando una netta separazione tra la teoria e la pratica, tra la stasi e il movimento, tra il circolare ed il rettilineo: la completa tensione è verso la completezza, verso lo sviluppo potenziale, verso il nostro luogo naturale. Perciò c’è una astronomia come calcolo di circoli geometrici, ma soprattutto una astrologia a cui tutto il sistema viene relazionato; esiste una geometria dei corpi che non si risolve nella pura traslazione in un piano ma ha bisogno di virtù per muoversi naturalmente o spinte e trazioni per spostarsi violentemente; e infine un musica, divisa fra teoria e pratica nel mondo terreno, ma la quale è in sé insoddisfacente se non rimanda alle armonie che comandano i movimenti dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra).

Pitagora di Samo (VI a.C) e la sua scuola formularono una prima dottrina in cui la struttura del cielo produceva suoni, proporzioni numeriche in cui si fenomenizzava l’armonia del cosmo. Una simile visione armonica del cosmo influenzò il primo sistema di sfere omocentriche teorizzato nell’antichità da Eudosso. Un akousma pitagorico diceva: “Che cos’è l’oracolo di Delfi? La tetrade, cioè l’armonia in cui cantano le sirene”.

Platone riprende a pieno il fascino di questa cosmologia e le sue allegorie armoniche della creazione del cosmo sono una parte fondamentale dei libri 8 e 9 della Repubblica. Citiamo alcuni passi dal libro settimo:

“Ma puoi tu ricordare qualche altra disciplina che risponda a questo scopo?
- Non posso, rispose, almeno così su due piedi
- Secondo me, feci io, non c’è una specie sola di movimento ma ce ne sono parecchie. Un qualunque sapiente forse potrà elencarle tutte, ma quelle che sono evidenti anche a noi, sono due.
- Quali?
- Oltre a questa già detta, risposi,quella che le è correlativa.
- Quale?
- Può darsi, ripresi, che, come gli occhi sono conformati per l’astronomia, così le orecchie lo siano per il moto armonico e che si tratti di scienze per così dire sorelle, come affermano i Pitagorici e noi, Glaucone, conveniamo. O come dobbiamo fare?
- Così, rispose
- Ebbene, dissi io, poiché la questione è importante, cercheremo di sapere da loro che cosa dicono di questi argomenti e di altri eventuali altre a questi. Ma noi, in ogni circostanza, ci manterremo fedeli al nostro principio.
- Quale?
- Che, studiando queste scienze, mai i nostri allievi cerchino di imparare qualcosa d’imperfetto che non possa giungere sempre là dove tutto deve mettere capo, come poco fa dicevamo per l’astronomia. Non sai che oggi si tratta in un modo simile anche l’armonia? Commisurando tra loro gli accordi e i suoni che si odano, si finisce col fare, come gli astronomi, fatiche inutili.
- Sì, per gli dei!, rispose, ed è ben ridicolo: nominando certe frequenze acustiche e tenendo le orecchie come a cogliere la voce dei vicini, taluni affermano di percepire in mezzo ancora una nota e ciò definiscono il minimo intervallo con cui si deve misurare, altri invece sostengono che il suono è simile a quelli di prima. Però gli uni e gli altri antepongono le orecchie alla mente.
- Tu, feci io, intendi certo parlare di quelle brave persone che malmenano e torturano le corde, stirandole sui proli. Ma perché l’immagine no diventi prolissa ricordando i colpi che si danno con il plettro, e l’accusa che si rivolge alle corde di rifiutare o di amplificare il suono, la interrompono e dico di parlare non di queste persone, ma di coloro che, come or ora dicevamo, avremmo interrogato sull’armonia. Si comportano esattamente come gli astronomi: cercano i numeri che esprimono questi accordi che si sentono, ma non si elevano a porre dei problemi, cioè a vedere quali numeri diano luogo a consonanze e quali no, e perché gli uni sì e gli altri no.
- Tu parli, disse, di un compito degno di un dèmone.
- Utile comunque, replicai, per la ricerca del bello e del bene, ma inutile se perseguito con scopo diverso
- E’ naturale, disse

(“La repubblica”)

Platone va oltre i pitagorici, criticando la pratica stessa della deduzione, dalle consonanze dei suoni terrestri, delle armonie celesti: non sono le proporzioni del vaso riempito o diminuito d’acqua a rappresentare le proporzioni dell’universo, ma bensì una astrazione numerica difficilmente applicabile alla pratica a rappresentare la musica vera suonata dalle sfere. Questo relegare la pratica ad un compito secondario e affannoso è una ulteriore scissione tra il piano terreno e celeste in cui si suonano due diverse armonie, di cui la sola possibile di astrazione e trattazione teorica è quella dei celi. Per Platone la difficoltà delle cose non può essere sciolta tramite delle applicazioni indirette di una forza: la leva non spiega la natura ma inganna l’uomo.

In modo acuto il sociologo Pierre-Maxime Schuhl sintetizza così, in un suo articolo, questa diversità di scopi e di strumenti nell’antichità per la “ricerca del bello e del bene”:

“Purtroppo sono più che numerosi al giorno d’oggi coloro che, fra tutto quello che ci offre la civiltà tecnica e moderna , non sanno cogliere che le rapide incursioni o le cascate di immagini e suoni che ci offrono il cinema, la radio, la televisione, o altri traumi sensoriali di ogni genere, la cui stessa brutalità tende a diventare un bisogno. Una civiltà del frastuono disconosce il silenzio. Platone, dei mezzi audiovisivi tanto apprezzati oggi, diffidava: le cose veramente difficili, diceva nel Politico, non si possono far intendere con quei mezzi. (“Perché l’antichità classica non ha conosciuto il “macchinismo”?).

Il passaggio dai pitagorici a Platone è fondamentale per capire la cosmogonia del Timeo, altro grande manifesto della generazione del cosmo. La materia segue delle proporzioni che le vengono impartite, viene metaforicamente associata ad una linea che è divisa in due parti che in seguito saranno unite ai loro estremi per formare due circonferenze, un piano orizzontale ed una eclittica (piano sfalsato di 23 gradi rispetto all’orizzonte). I pitagorici costruirono i primi strumenti in scala, definirono le prime consonanze e proporzioni, costituirono una prima teoria della musica che fosse anche una meccanica celesta ma non riuscirono a completarla per mancanza di una vera e propria cosmologia ben strutturata. Ecco come Platone riordina la sua idea di cosmo, e in cui utilizza non solo teorie armoniche delle proporzioni ma anche l’idea di un mondo come manufatto, fatto con la mano a partire dall’idea di un demiurgo che dà forma alla materia precostituita ad esso.

Questo modo di organizzare i dati e le discipline trionfò nel tempo e rappresenta la forma mentale della percezione del cosmo dell’uomo antico e medievale. Con l’avvento del cristianesimo e della teologia razionale tutto questo patrimonio si fuse con il racconto biblico, i cieli empirei divennero l’habitacolum electorum e la dimora di Dio, le sfere dei pianeti, erano mosse da angeli, i quali a loro volta erano mossi da un amore, l’amore del padre, dell’uno, l’ “amor che movi” di Dante: dall’harmonia mundi all’armonia del creato.

Questo passaggio comportò comunque una ricostruzione delle fonti e del sapere antico che dalla caduta dell’Impero romano d’occidente (476) andò quasi integralmente persa nelle terre in cui si parlava latino. In effetti la lingua della cultura rimase sempre il greco, e qualsiasi romano di lingua latina avesse voluto intraprendere una attività intellettuale doveva impararlo. La scienza e la divulgazione scientifica fino ai primi anni del medioevo (periodo storico questo che va dalla deposizione di Romolo Augustolo nel 476 alla presa di Costantinopoli da parte turca nel 1453) fu per la maggior parte di lingua greca; o almeno fu l’unico modello di riferimento per i divulgatori scientifici latini che operarono a partire dal I secolo d.C: Seneca e Plinio il Vecchio.

La tradizione degli enciclopedisti è di fondamentale importanza per capire come il pensiero di Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, Tolomeo, e dei divulgatori greci venne man mano perdendosi in collezioni di fatti, citazioni e traduzioni parziali che a volte distorcevano le dottrine originarie. Nonostante questo tra il quarto ed il settimo secolo d.C ci fu una grande produzione di opere in latino che avrebbero avuto un notevole successo sulla sistemazione del sapere nel medioevo e nelle nascenti prime università. Da questi enciclopedisti deriviamo i termini “trivium” e “quadrivium”, divisione delle sette arti liberali del periodo greco classico.

Tra il quinto ed il sesto secolo dopo Cristo ritroviamo anche i primi compendi del sapere musicale greco in lingua latina, in cui viene ribadita l’allegoria platonica di una musica celeste e di una musica terreste. Una delle opere che ha fatto scuola è il De institutione musicae di Severino Boezio (480-524). Boezio fu uno dei più importanti enciclopedisti assieme a Marziano Cappella, Cassiodoro, Venerabile Beda, Calcidio, etc. , scrisse sul quadrivium e fu forse lui ad introdurre questo termine per indicare le quattro scienze del numero.

Di seguito una bellissima immagine del 1300 che ci illustra l’eredità greca che l’uomo di lingua latina dal basso medioevo aveva assimilato:




A partire dall’alto scorgiamo sulla destra tre diversi concetti di musica: una musica “mundana”, una musica “humana” e una musica “instrumentalis”. La prima ha la sua massima espressione nel messaggio stesso dei cieli, nella compagine degli elementi e nella varietà dei tempi, il suono del corso veloce della macchina celeste che non udiamo poiché tanto è più grande il corso delle stelle tanto è più difficile comprendere la sua armonia poiché si allontana dalla compagine terrena. E’ il mondo ordinato gerarchicamente, in cui sia le sfere dei pianeti che i quattro elementi sono mossi da un primo mobile, ma in cui appunto questa sola condizione dinamica non basta per colmare la disparità qualitativa delle parti stabilite dalla periferia al centro. Boezio si pone allora una domanda antica quanto attuale, cui cercheranno di rispondere sia Campanella che Newton, riformulata in molte maniere, dalle simpatie ed antipatie alla determinazione fisica dell’unica forza che attrae le masse, la domanda del “come si tiene il mondo, in che modo le cose si tengono, qual è il senso del mondo?”: “Jam vero quatuor elementorum diversitates contrariasque potentias, nisi quaedam harmonica conjungeret, qui fieri posset, ut in unum corpus ac machinam convenirent?”. Il problema qui posto è come gli elementi, le qualità contrarie e le varietà dei tempi possano accordarsi naturalmente in un corpo unico. La diversità del cosmo è alla base della diversità dei tempi, del tempo delle stelle, unico, inalterato, ritornante in sé, e del tempo delle stagioni, instabile, variabile da una regione ad un’altra, più lento o più veloce: un frutto porta con sé la qualità del tempo in cui è colto, il luogo in cui è stato piantato il seme, la congiunzione dei segni zodiacali associati, perciò tolte tutte queste condizioni necessarie non esiste per l’antico un frutto globalizzato invariante per ogni trasformazione stagionale. Non possiamo allora partecipare al tempo eterno e al suo suono divino, ma possiamo accontentarci dei suoi frutti, come il quadrante solare ci trasmette il suo messaggio forzato su una meridiana.

Nelle figure di mezzo troviamo quattro uomini che personificano la musica “humana”, espressione dell’anima e della sua armonia, ma soprattutto simbolo della mediazione tra l’elemento corporeo e l’elemento spirituale. La musica è qui “vocale”, una “temperatio” come equilibro tra il corporeo e l’incorporeo, tra il grave ed il lieve, il pesante ed il leggero, quasi a darne una sintesi in una sola consonanza tra il razionale e l’irrazionale.

In ultimo, in basso, un personaggio che suona uno strumento e ne è circondato da molti altri, rappresentazione della musica “instrumentalis”, musica pratica che imita le altre due, che riproduce meccanicamente la teoria armonica astratta trasferendola non su un corpo umano, su una voce che faccia da collante tra i due mondi, ma su uno strumento costruito dall’uomo, un artefatto o manufatto completamente diverso dai cieli e dagli otto toni delle sirene platoniche: “Haec vero administratur, aut intentione, ut nervis, aut spiritu, ut tibiis, vel his quae ad aquam moventur, aut percussione quadam, ut in his quae in concava quaedam virga aerea feriuntur, atque inde diversi efficiuntur soni”.

Un musica strumentale è una pratica artigianale, anzi non apparterrebbe propriamente alla musica ma all’applicazione di certe tecniche costruttive. Il pensiero antico anche sul versante della pratica musicale riporta la sua divisione tra la teoria e la prassi, nell’impossibilità di far si che la teoria penetri un utensile e che il manufatto possa essere l’esempio della musica, delle proporzioni, delle scale, di un corso di armonia. L’ultimo capitolo del I libro di Boezio titola “Quid sit musicus” ed esprime in modo molto chiaro questa posizione affermando che “Manuum vero opera nulla sint, nisi ratione ducantur”, l’opera degli strumenti non vale molto se non è condotta dalla ragione, e ciò è quanto a dire: la musica strumentale è sì una disciplina ma prima di essere musicale deve sottostare ad un ordine che non gli appartiene naturalmente, poiché ciò che in verità chiamiamo musicale “non servitio operis, sed imperio speculationis assumit”.

La sospensione della musica e il rivolgersi ad una ispirazione dall’alto sono i modi migliori per trovare una consonanza in terra: la terra lasciata a sé produce movimenti scomposti e dissonanti. Questa visione del mondo verrà man mano sostituita con l’idea di un infinito mondo senza orientamento, da una geometria senza qualità, da un uso degli strumenti terreni come piccoli modelli del grande modello invisibile dell’universo infinito ed isomorfo: in un mondo vuoto e privo di direzione qualunque spazio è già luogo prima di essere limitato, anzi l’idea stessa di luogo perde i confini non avendone più bisogno.

La stessa cosa vale per i suoni, per la teoria, per l’armonia che si stacca pian piano dalla sua derivazione celeste per ritrarsi in una sistematica riduzione dei linguaggi nel singolo spartito, in una settaria scrittura, in regole per modulare dei gradi di una scala. Il concetto di unicità della musica e delle sue componenti ha ridotto la sfera del teorico, depurandolo del magico, e ampliato il pratico o almeno l’importanza dello strumento che rappresenta la teoria in modo esaustivo e conclusivo. Il comportamento del moderno ascoltare non contempla alcuna sfera irrazionale dal punto di vista scientifico ma lascia tutto ciò che è al di là, lassù, nell’etere, ad una elaborazione estetica privata ed insondabile.

L’arte per il moderno è una rivincita sull’antico, un superamento dell’ approssimazione in terra, una vittoria del mondano su qualcosa di invisibile che ormai da etere è divenuto vuoto: l’assenza di un compromesso in terra con l’ordine increato è il frutto dell’ascolto moderno. Nella sua riproduzione oltretutto riesce a superare l’eterno circolo del mondo sferico, dell’armonia planetaria, della sirena che gira attorno all’asse del cosmo, simbolo della necessità di una armonia delle sfere. L’armonia nel moderno è l’incontro tra Pitagora e Democrito, tra l’esperimento su corde, metalli e vasi da una parte, ed una teoria materialista e meccanicista dall’altra: il mistico Platone ha lasciato il posto al metafisico Cartesio.

La musica è materia difficile si diceva, non ottiene forma nell’ascolto se non quella che si voglia dare; è materia che intesa nella sua neutralità apre le porte a diffuse interpretazioni, diffusi mondi, uniti da alcune regole fondamentali, divenute digitali e quantizzate nella (ri)produzione contemporanea. Il software che taglia e cuce il prodotto dell’uomo non è più un manufatto ma uno strumento in cui risiede già la teoria: anzi la teoria si rivolge ad esso più che ad un singolo strumentista geniale (il genio fa quello che può).

Da Platone a Boezio non si fa il salto all’ascolto moderno se non si cambia la percezione del mondo: cosmo infinito, armonie infinite, terre disperse nel vuoto, note sparse tra le righe e gli spazi.

C’è bisogno di stare in guardia di fronte al nostro passato; la percezione del mondo non è affare da poco, ma riguarda anche quel particolare suono che state percependo, come lo sentite, come lo interpretate, se lo potete riprodurre o meglio registrare: se non si è coscienti di questo si finisce per intendere davvero il mondo senza un senso o uno scopo, mentre proprio per cambiare senso di marcia e di orientamento il nostro uomo moderno ha chiuso le spalle ad antiche visioni e rubate altre, ripresentandole alla luce di una nuova teologia del suono, una nuova metafisica che toglie al senso il suo movimento verso l’alto restituendolo completamente e problematicamente nelle mani dell’uomo che non intende più alcuna musica celestiale ma al contraria la cerca costantemente in se stesso.

Davide De Caprio

lunedì 15 ottobre 2007

L' unità del reale (parte prima)

Ho parlato spesso del suono, della musica, di come ci sia una fortissima analogia tra i fenomeni fisici osservabili nel mondo ed il funzionamento del corpo umano (articolo "come suona la voce umana").

Da qualche mese a questa parte la mia mente è rapita dall’aver riscontrato che la grande varietà di fenomeni fisici osservabili nel mondo e all’interno del nostro corpo, hanno una matrice comune, come case differenti costruite con lo stesso tipo di mattoni.

In articoli precedenti ho più volte detto che il suono si propaga in un mezzo (aria, acqua…) come un onda, in particolare come una variazione di pressione. Ma fenomeni che macroscopicamente si comportano come onde sono molteplici….

Viene perciò spontaneo chiedersi quali siano tra loro le eventuali analogie. In particolare voglio porre l’accento sulle radiazioni elettromagnetiche, di cui tanto si parla (tutti avranno sentito parlare di Raggi UV, infrarossi, raggi γ ).

Senza andare troppo lontano, anche la luce del nostro sole è una radiazione elettromagnetica…Anche se [luce macroscopica = onda] è un concetto assodato della fisica classica, sin dal ‘800, cercherò di spiegarlo in modo estremamente sintetico.

Come il suono è una variazione di pressione, una radiazione elettromagnetica è una variazione di campo elettromagnetico che si propaga nello spazio, o meglio di campo elettrico e campo magnetico che si propagano in fase (viaggiano a braccetto).

Perché esistono diverse radiazioni EM ? La risposta è la stessa che si darebbe alla domanda: perché esistono suoni diversi?

Tutti risponderemmo: perché ogni corpo può vibrare a diverse frequenze. Nel caso delle onde EM la questione è analoga.Esistono diversi tipi di onde EM perché un campo elettrico (come un campo magnetico) può variare nel tempo con diversa frequenza.

E’ per questo che si parla di raggi X raggi γ…. non è altro che una classificazione dei vari tipi di radiazioni in base alla frequenza, ed alle diverse manifestazioni della loro interazione con la materia.

Onde radio - Microonde - Infrarosso - Visibile - UV - Raggi X - Raggi γ[105 (1014 1015) 1025] Hz

Se si facesse uno stesso schema per le note musicali si noterebbe una sostanziale analogia. E’ come dire: ogni colore, manifestazione della luce emessa dagli oggetti che vediamo, è come se fosse una determinata nota emessa da un corpo vibrante che ascoltiamo. Spero che una tale consapevolezza lasci sbigottiti voi almeno quanto me. Chiaramente tutto ciò è ampliamente dimostrato a livello matematico, dato che suddetti fenomeni (ondosi) sono tutti regolati (a livello macroscopico) dalla medesima equazione di base detta proprio equazione delle onde, nel merito della quale non entrerò.

Se pensiamo quanto vista ed udito siano i pilastri della nostra esperienza sensibile, mi lascia esterrefatto la possibilità che la natura si sia organizzata, in modo tale da comunicare con noi significati diversi attraverso dei linguaggi che presentano schemi non simili, ma del tutto identici.

sabato 29 settembre 2007

Appunti di Ear Training

Nel corso del mio insegnamento in campo musicale ho riscontrato spesso delle lacune importanti.

Tutti abbiamo delle pecche, tutti dobbiamo imparare man mano qualcosa, ma questo non toglie lo sviluppo di conoscenze che si sono acquisite con un minimo di sufficienza e di padronanza.

Ciò che soprattutto manca nell'insegnamento di oggi, e non parlo solo della musica ma anche di tutto ciò che è sapere (le lacune matematiche ne sono un esempio), riguarda il rapporto con il concreto, con la materia che si studia: attenzione, non l'ambito, ma la materia ossia la sostanza, l'esempio, l'applicazione non l'astrazione.

Il problema che si ha con la musica diventa allora soprattutto un problema di suonare uno strumento, di suonarlo insieme ad altri e mai di fare silenzio, di ascoltare da soli o di ascoltare insieme ad altri. L'ascolto nella musica viene prima del suonato, e viene prima di ogni tecnica applicata su qualsivoglia strumento. Come il vedere per una dimostrazione geometrica, o il sentire con le mani prima di una scultura o di una costruzione materiale.

I sensi prima di tutto, ma quali sensi? E non scendiamo nella butade della mancanza di senso nei nostri giorni. Piuttosto chiediamoci: perché avere un senso? Si perché, prima di qualunque speculazione bisogna sentirne il senso, assumerne l'orientamento e poi fondare una argomentazione che ci porti al di là del senso, e quindi in una nuova acquisizione di sapere. Ciò non esclude però l'errore. C'è errore anche quando si ha senso, quando si sbaglia il senso e si crede di volere apprendere nel momento in cui si finisce di apprendere: non è che si perda senso ma è il senso giusto quello che ci manca.

Sulla giustizia dei sensi si dovrebbe farne un capitolo a parte, cosa che ci porterebbe nella galassia del diritto ad avere un senso giusto da parte di chi ha il ruolo di tutore od insegnante. Su questo punto c'è ancora molto da lavorare. Credo sia meglio addentrarci nel senso di quella sostanza di cui parlavo sopra, ed è forse proprio con gli oggetti che il senso di una materia può orientarsi ed apprendere più di quello che normalmente può incamerare un senso ridotto a precetti d'abitudine: il buon senso o senso comune.

Un avvertimento: il senso comune è fondamentale, poiché rimane una pietra di paragone ineliminabile nei nostri impegni e nel confronto con i nostri simili; addirittura è la componente essenziale e quasi mai visibile di ogni nostra comunicazione con i nostri simili. Senza il buon senso non ci accorderemmo neanche su cosa sia una mano, se quella con cui sto scirvendo sia la mia mano o non la vostra.

Ma il senso di una materia che ammette una sua estensione o che si presume possa essere una propedeutica allo studio della sostanza-musica è qualcosa d'altro. In una nuova materia non si cerca il buon senso, ma si deve cercare di capire in quale senso bisogna svilupparla e quali conseguenze questa scelta e ricognizione possano avere sul più normale dei sentimenti associabile alla abituale frase: "fare musica".

Fare della musica significa prima cosa: non farla. Disfattismo? No. Quando voi volete fare della matematica o della filosofia cosa credete di fare al primo impatto?: certamente fare dei calcoli, imparare delle definizioni, conoscere la vita di Cartesio, ricordarsi a memoria alcune massime, addirittura ricordarle e citare in un contesto. Niente di tutto questo.

Fare della musica significa rimanare fermi, posare gli strumenti, posare i sensi e abbandonarsi ad un senso: l'orecchio, l'ascolto, il senstirsi tramite udito.

Ma a che serve? Uno non si ascolta pure suonando il proprio strumento? No, non si ascolta, anzi non riesce ad ascoltarsi quasi mai, è gia virtualmente in uno stato di annichilazione: io e il mio strumento significa: io e la mia mente non io e il mio orecchio e il mio strumento.

Il problema fondamentale però è che in ogni conoscenza il fine è proprio quello di riportarci ad uno stato di dialogo tra noi e la nostra mente: cioè il suonare, quello professionale o quello artistico di un certo livello, comincia man mano a diventare un colloquio con la mente piuttosto che con il senso addetto allo sviluppo del suono. Il fine di un lavoro è il risultato?No. Il fine di un lavoro è la riflessione che si fa su di esso.

Come si impara a riflettere? Non certo con la musica direte voi. E io risponderò che certamente la riflessione con la mente è un affare privato, una rinuncia al contatto con la comunicazione dell'istinto, con il dialogo della bestia che c'è in ognuno di noi, con l'animale che razionalmente si spoglia del suo ruolo per affacciarsi nella pampa del concerto e nel concertare si avvicini allo scopo del travaglio: lo sfogo di una nota (oppure la strage delle note).

Ciò può accadere, come accade di andare in vacanza, come accade di giocare una partita tra amici, o tra nemici, o in un amplesso tra amanti.

Ma si riflette in questo? No, ma ci si abitua ad avere a che fare con il senso comune, che è già una grande vittoria, una uscita dal mutismo, dalla coazione a ripetere le stesse operazione mentali senza mischiarle con l'operazione dell'uomo che passeggia sulla terra per cui è stato creato (alcuni dicono sviluppato, ma va bene lo stesso in questi casi).

Quando dobbiamo invece metterci seduti, di fronte magari ad un libro, ad una immagine, a ciò che è sempre stato il più noioso passatempo della storia, di fronte cioè ad un insegnante, allora il senso deve cambiare e bisgona scegliere di avere a che fare con qualcuno che ci sta indicando come si rifletta a partire da una senso ben preciso, come si possa cioè vivere in una giungla ma usando la mente e discernendo le possibilità di svolta: sembra facile per voi orientarsi in una giungla, qual'è il nord, la stella polare vi è di aiuto certo ma come fate a trovarla, vi servono anni di studi di astronomia, ma cos'è l'astronomia, vi serviranno anni di paure e tensioni nei confronti di un cielo stellato che rappresenti non immediatamente un astrolabio ma un abitaculum electorum, un cielo cristallino, una sfera di stelle fisse, che ruota e trasporta delle cose che sembrano essere completamente diverse da voi, cioé immutabili e proiettate verso la cupola dello zoodiaco: quanto dev'essere stato faticoso eliminare il buon senso dell'astronomia tolemaica e vedere in Copernico un universo che lo potesse sostituire.

Appunto che senso ha? Che senso ha imparare ciò che già si fa normalmente dal primo giorno della nostra passeggiata sull'ecumene? Ascoltare sembra per voi una acquisizione semplice e necessariamente facile? Non lo è invece per nessuno, perché nessuno ha mai ascoltato qualcosa con la mente, cioè con lo scopo di farne un ragionamento, una parafrasi, un discorso sul senso e non una sensazione razionale.

Credo allora che affrontare un corso come quello che affronterò quest'anno presso l'Università della Musica, Ear Training, sia il primo vero programma che dovrò sviluppare senza dover suonare qualcosa, e questo mi rincuora. Non perché non voglia suonare, ma perché non bisogna solo suonare nella musica.

L'educazione al suono e all'orecchio è prima di tutto uno studio fisiologico, che deve cominciare con la vista, con la vivisezione dell'udito. Poi deve proseguire con l'ascolto dei rumori, dei segnali, dei suoni che non sono fatti per la musica canonica. Proseguendo per questa strada si dovrà capire che il suono educato è un suono artificialmente programmato, un senso comune che è diventanto razionale, sottoposto a temperamenti, a storia della musica e stili che nel tempo si dimenticano o si fondono come l'arte dell'alchimia nella scienza della chimica.

Perciò ogni sabato, scriverò su questo blog, che è anche uno spazio musicale, degli appunti di ear training, facendo partecipare ogni lettore al programma dell'esame ed intrattenendolo nello studio di una materia capitale: l'allenamento dell'orecchio.

Ma come, a parole? Si, perché non credo possibile allenare nessuno in nessuna cosa senza stabilire un linguaggio, soprattuto quando non si tratta di uno sport. Non si può allenare uno strumento che non va in gara, è come fare in palestra della ginnastica per la mente. L'orecchio è come la mente per il musicista, e come la mente va allenanto facendogli prendere confindenza con le procedure della riflessione mentale, con la conoscenza dei testi della musica, gli errori della musica, le abitudini dei suoni e le loro armonie che nel tempo cambiano di aspetto e nella storia soprattutto di significato.

E' dall'inzio, anche prima di uno studio teorico sulle nomenclature ufficiali di un impiego, che bisogna indirizzare l'orientamento insegnando come da una posizione data, il suono, trovare il levante e gli altri punti , ossia gli altri suoni e le loro conseguenze e rapporti.

Come la mente deve fare a partire da una parola o da un autore, cercando di dedurre e creare una serie di mondi interconnessi ad un tema, così il musicista riuscirà a poter parlare con lo stesso linguaggio del filosofo, del letterato o del matematico, riportando la musica sotto quell'antico quadrivium che tanto bene fece all'organizzazione del sapere universitario del Medioevo: geometria, astronomia, aritmetica e appunto musica.


Davide De Caprio

giovedì 27 settembre 2007

La Birmania ci interessa?

Riapriamo le danze sul Matblog e ci vorremmo chiedere subito, in modo non buonista, che cosa suscita in noi e quali riflessioni debbano richiamare alla mente e al corpo le notizie sul Myanmar (ex Birmania).

Non rientra certamente in uno spazio dedicato all’arte, alla musica e alla tecnologia, ma non si può rimanere muti davanti alla mancanza di senso della nostra risposta, sia interna che esterna. Nel cuore di tutti i singoli dell’Occidente sicuro, in cui si può fare di tutto (nella coercizione di doveri e relativi diritti), si può manifestare per un governo, contro un governo, contro il sistema, si può invitare un personaggio come Ahamadinejad nelle più prestigiose università e si può farlo proferire su ogni quisquilia (antisemitismo, inesistenza dei lager, omofobia e eliminazione dei gay, la donna islamica che è più libera di quella della rivoluzione sessuale a noi cara), in questa torre di Babele tecnologizzata ed industriale, in cui si può lavorare, essere licenziati, trovare un nuovo posto, crearsene un altro (se ne si ha voglia), scegliere la propria religione, cambiarla durante l’arco di una vita, fare figli o non farli, vivere in famiglia e non considerare famiglia la trinità ma qualsivoglia contratto o pacs o associazione tra animali; ma soprattutto nel nostro caro Occidente dove dalla seconda guerra mondiale (il riflesso di un delirio e di una fine tragica della filosofia del potere razionalmente “chiaro ed evidente”dell’uomo e della religione pagana dell’”uomo dio dell’uomo”) ci si riunisce, in assemblee o in sedute internazionali, si può esprimere un voto o un veto, si può fare una battaglia e vincerla, si può cambiare “regime” a seconda dell’elettorato; bene, in questo crogiuolo di ciò che chiamiamo democrazia il nostro cuore certamente prova disgusto nel vedere dei monaci e una popolazione in ostaggio di un gruppo di militari sullo scranno, lo stesso disgusto che proviamo per le persone che non hanno da mangiare, che soffrono per un destino infernale, ingiusto, senza provvidenza, senza ripartizioni uguali, senza un senso uguale. E allora la nostra pietà ci invita subito a radunarci, la nostra voce che conta e che per fortuna è visibile su ogni mezzo (stampa, televisione, radio, internet) farà il giro del mondo, colpirà anche il cuore e l’anima di quei militari che dovranno accettare per forza l’inviato dell’Onu, perché questo è il responso della civiltà progredita, quella dei veti legittimi della Russia e della Cina, quella modernità fatta di pietà e di dialogo ad oltranza, tra Wojtyla e Gandhi.

Ho espresso un periodo molto lungo per reificare il nostro atteggiamento più immediato, che più riflette la nostra azione quotidiana, quella del senso comune; ma c’è anche chi insieme a questa non violenza vorrebbe più azione, che bolla il veto dei due giganti Orientali, che non si fa capace dell’atteggiamento equivoco della Cina quasi capitalista, quasi europea ma che non sente di condannare le uccisioni religiose. Allora penso e rifletto, passando ora alla mente, dopo aver fatto sfogare il cuore e l’istinto: siamo così sicuri che sia facile creare la democrazia? Siamo sicuri che possa nascere dalle parole o dall’invio di un delegato? Siamo sicuri che l’uomo sia portato un giorno o l’altro a creare una federazione, un corpo politico, un cambio di regime che si possa chiamare cambio di governo? Siamo davvero sicuri che nel mondo secolarizzato e laico il valore di una religione sia da mettere da parte, che possa nascere la democrazia ed andare avanti in modo puro, seguendo l’etica senza dio, nella creazione di un primo vero potere razionale, laico, eticamente equidistante, politicamente neutro?.

La lezione che possiamo trarre è che l’unica civiltà che è riuscita in questo progetto la ritroviamo in Occidente, in special modo nell’Occidente dell’Inghilterra e degli USA, e con più fatica nel resto del continente. Chiaramente il modo in cui ci si è arrivati ha dovuto ricorrere alla violenza e alla guerra tra gli uomini e alla eliminazione di alcune giustificazioni tipiche dell’onnipotenza dell’uomo solitario al potere: la schiavitù e l’intolleranza religiosa, insieme alla chiusura della circolazione di conoscenza.

Bene, quello che vediamo e sentiamo oggi è un gruppo di monaci che si ribella al potere di un manipolo di militari, anch’essi dei religiosi, ma che evidentemente non hanno mai avuto a che spartire con il diritto alla religione. Il significato vero di un massacro è che l’uomo non vince da solo, non sconfigge il male senza l’aiuto e la collaborazione di un senso diverso dell’essere mortale. Tra tutte le religioni e le tradizioni etiche i valori giudaico-cristiani sono stati gli unici che nel loro progresso hanno consentito ciò che il loro credo professava (“Date a Cesare quel che è di Cesare”), le uniche che non hanno ostacolato il progresso se non per guerre intestine ( riforme e controriforme), che hanno consentito di proseguire nei loro valori e nei loro veti senza scatenare altre guerre religiose in nome di un Dio irrazionale. Purtroppo l’uomo a volte non sa limitarsi alla sua propria ragione, travalica i principi tradizionali e la sua stessa sicurezza di trovarsi in una società giusta: alla fine l’uomo senza un accordo ben preciso su cosa sia giusto e cosa significhi avere un’ autorità tra i suoi simili si “gioca la libertà” e con essa la sua stessa ragion d’essere.

Il popolo della Birmania ha ragione, è nel giusto, rivendica quello che l’Occidente ha sofferto di fronte alla dittatura dell’uomo che è la superstizione di sé stesso. Siamo di fronte al rinascimento di una cultura che vuole essere come la nostra, che vuole al potere chi ha votato e chi è stato insignito del premio Nobel sul nostro suolo.

Cosa fare? Immagino, le marce saranno tante, gli appelli a non finire, ma non si può non vedere che c’è una pecca in tutto questo: siamo degli scattisti senza il senso della gara. Non ho mai sentito dalla nostra intellighenzia una sola parola su questi regimi, mai un intervento duro da parte di quell’insieme di paesi che dovrebbero rendere il mondo uno spazio più democratico: l’ONU. Non si è mai detto nulla, oppure, se si è fatto, non ci sono state mai conseguenze pratiche, cosa davvero strana in un mondo così veloce e così immediato nell’efficienza dei suoi servizi. Non vedo risolversi nulla sul lato Darfur, sul lato Zimbabwe, o sul lato nascosto di quel paradiso marcio di Cuba. Ma per fortuna ho speranza in due tre persone che sicuramente il mondo odia, o imparerà ad odiare presto, ma che vi invito a seguire perché se avrete il coraggio di farlo vi accorgerete che nelle loro parole e nelle loro scelte (di politica interna come di politica estera) c’è un filo comune di intesa, una speranza che da ormai dieci anni sta travolgendo e avendo dei risultati (lenti e sanguinosi ma signori è la storia e non possiamo sottrarcene come anime belle!): Bush, Sarkozy e Brown. Sento in queste ore plausi per le loro parole, a volte una certa resistenza e delle trovate carnevalesche (il “Corriere della sera” che pubblica come notizia importante il gobbo suggerente le pronunce al presidente degli Stati Uniti, una satira da Europa pigrona e priva di iniziativa, scattista ma sempre dopo gli altri), a volte delle riserve ancora più gravi, come per dire “attenzione” il presidente del male insieme ai suoi compagni (un po’ come il regista Moore) stanno cavalcando l’onda, approfittano per rendersi belli.

Credo di essere una delle poche voci che segue gli sviluppi dell’ala neoconservatrice degli USA, ma oltre alla simpatie (studi e leggo i filoni ispiratori di questa visione del mondo come Karl Lowith e Leo Strauss) non vedo altre “voci politiche” che si muovono, non vedo altri presidenti che quando vengono rieletti hanno il coraggio di affermare: “La politica degli Stati Uniti è quella di cercare e di sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo finale di porre fine alla tirannia nel mondo”. Molte persone che ascoltano e vedono su You Tube la caduta dei monaci e con essa il diritto alla vita del popolo della Birmania devono riflettere adesso con la mente, riflettere sulle prossime ore, sul delegato dell’ONU e la mancanza di sanzioni e di un duro monito, del veto della Russia e della Cina, della pressione dell’amministrazione Bush che da alcuni mesi (chi voglia dei dettagli può richiederli) fanno pressione su Ban Ki-moon in relazione al regime tirannico dei militari che arrestano e ammazzano monaci.

Questo articolo lungo è uno sfogo certo, ma anche una riflessione in ultimo determinata dal fatto che non ritrovo altre importanti forze vive nel mondo in lotta con il male. Perché il male c’è, non è finito con il relativismo delle culture; certo alcuni credono che il male risieda anche a casa nostra, e ne sono convinto anche io, ma stento a credere che da una cotale torre di Babele che svolge i suoi compiti in modo così limpido e così visibile possano nascondersi occulte manovre, occulte macchinazione che nonostante la forte democratizzazione riescano a far crollare delle torri, a fare guerre energetiche che impegnano risorse ingenti, a mettere ai voti chi li ha portati sul baratro, a processare chi ha sbagliato, a svolgere commissioni di inchiesta, oppure a rassegnare delle dimissioni quando si sa di aver sbagliato: o siamo degli idioti o votiamo degli idioti.

La democrazia non uno sviluppo necessario, essa accade in un paese in cui c’è un alto senso di responsabilità, in cui quando si viene eletti si portano i propri risultata ad un banco di prova internazionale, si paga lo scotto di essere definiti dei tiranni ma poi si va all’Onu come unica voce fuori dal coro a dire che bisogna combattere senza se e senza ma i tiranni geneticamente fuori dal consorzio umano. Spero che tutti i nostri sforzi servano e conducano ad un risultato comune, ma essendo molto pessimista sulle sorti dell’uomo che crede di trovarsi nel mondo secolarizzato, non credo che si avranno grandi risultati nella Birmania se non si segua una linea dura, una linea che è faticosa e che faccia render conto fino nell’intimo dei nostri cuori che il male del mondo per non esistere dovrà vincere un potere che è alla sua altezza, che porta alla pace certo, ma che, signori miei, nasce dagli errori, dalle sconfitte, dalle difficoltà e dai lutti.

Emanuele Kant, che aborriva la corsa agli armamenti, ma che vedeva la storia verso un ordine finale di pace perpetua, ci avrebbe detto che era normale la repressione in Birmania, che l’antagonismo è la chiave che porta alla socievolezza, che l’errore è l’inizio del senso della nostra disposizione naturale, e che se si fosse rimasti nella pigrizia e nell’inerzia dell’egoismo (che potremmo interpretare oggi come una sorta di distanza nei confronti delle rivoluzioni di altri mondi, nonostante il mondo sia unico da più di cinquecento anni), ci ritroveremmo in un paradiso armonioso e arcadico senza svolte importanti. Cerchiamo allora, noi che viviamo in un recito preparato da tempo da lotte interne ed esterne, da antichi imperi poi trasformatisi in assi del terrore, di non cullarci nella nostra federazione di giusti, cerchiamo di rivendicare cosa è giusto, e cerchiamo di raddrizzare il legno storto del mondo umano: se non si fa questo si è degli animali, si è equidistanti nei confronti di tutti e si vive tranquilli, senza mali, con un buon padrone, e noi delle buone pecore.

Davide De Caprio

venerdì 21 settembre 2007

Hans Ruedi Giger-Quando la carne e il metallo si fondono.


Hans Ruedi Giger immortalato in una foto recente

Hans Ruedi Giger è lo pseudonimo artistico di Hans Rudolph Giger, un artista degli effetti speciali nonché pittore svizzero, creatore insieme a Carlo Rambaldi della creatura aliena del film di Ridley Scott “Alien”.

Nato a Coira in Svizzera nel 1940, trascorre un’infanzia felice, passata a studiare le boccette variopinte nella farmacia del padre. In seguito frequenta un corso di design in un’accademia di Zurigo, la stessa città che comincia ad accogliere le mostre delle sue opere, che accolgono molto successo , grazie anche all’abilità che questo artista svizzero sviluppa con l’aerografo.

Infatti questo strumento gli permette di definire con un risvolto unico la sua tendenza pittorica del bicromismo che caratterizza le sue opere, rendendole inquietanti anche al pubblico di aficionados che man mano va costruendosi intorno alla sua figura.

Gli anni che seguirono le prime mostre furono sconvolti dalla morte per suicidio della sua prima consorte, continuando tuttavia ad essere popolati dalle sue opere raffiguranti i cosiddetti “Biomeccanoidi” organismi futuristici in cui il metallo e la carne si fondono a creare una creatura abominevole e spettrale, un incubo incarnato.

La sua fama raggiunge ben presto anche il mondo del cinema, infatti nel 1978 Ridley Scott decide di contattarlo per il progetto che sta mettendo in atto con Carlo Rambaldi .

Ai due il regista commissionerà la creazione del vero protagonista del film fantascientifico “Alien”, ovvero la creatura aliena che , si può notare, rispecchia benissimo la struttura fisico-organica dei “Biomeccanoidi”, e grazie alla quale Hans riesce ad ottenere un successo che gli varrà l’Oscar “Per i migliori effetti speciali”.

Ma i suoi progetti cinematografici non si fermano qui, infatti collabora con alcuni disegni al progetto di “Dune” di Alejandro Jodorowsky , poi ripreso da David Lynch, il quale gli lasciò mano libera solo per qualche ambientazione, mentre dà vita ad una nuova creatura nel film “Species”, il quale tuttavia non riscuote un tasso di gradimento elevato come quello di Ridley Scott.

Risposatosi, ora è ancora attivo con le mostre delle sue opere, uno degli artisti contemporanei più inquietanti e moderni del nostro tempo.


Un "Biomeccanoide", l'esempio del concetto espresso dall'arte di Giger

sabato 15 settembre 2007

Vignetta della domenica



Se qualcuno di voi desidera segnalarmi fatti, eventi o semplicemente argomenti sui quali vorreste vedere pubblicata una "Vignetta della domenica", non esiti a contattarmi cliccando sul link sotto stante oppure inviandomi una mail all'indirizzo "labak2005@libero.it".Sarò ben lieto di prendere in esame le vostre proposte.Ovviamente il vostro nome sarà citato sotto la vignetta in questione, nel caso vogliate rimanere nell'anonimato, chiaritemelo nella mail inviata.

Daniele Tartaglia

venerdì 7 settembre 2007

La body-art:Il corpo diviene opera

Le tendenze artistiche hanno raggiunto campi inaspettati, improvvisi, talvolta sconvolgenti nella loro bizzarria geniale, nel loro essere all'inizio originali, daprendere come modello pe i posteri che vogliano cimentarsi nello stesso tipo di arte.

Ed ecco che vediamo contadini fare dei veri e propri ritratti su campi di foraggio, ecco come semplici cuochi o operatori gastronomici sfornare delle vere e proprie sculture da frutta e ortaggi, oppure personaggi stravaganti che, non paghi del solito rudimentale castello di sabbia, creano dei bassorilievi magnifici e vere e proprie cittadelle nella parte della spiaggia antistante il bagnasciuga, arti effimere ma certamente di impatto agli occhi di chi le osserva.

Il campo dove l'arte nasce per durare ancorata alla vita di chi ne è portatore, fatta quindi per durare vita natural durante, tranne nei casi in cui si desideri il contrario, è quello della cosiddetta body-art.

Chi di noi non ha mai visto un tatuaggio o parti del corpo umano fuse con l'acciaio, quasi a sembrare un portaspilli di piercing ?

Molti nemmeno considerano la body-art come qualcosa da annoverare tra le arti e le tecniche artistiche tradizionali, ma è qui che sta l'errore di chi si ferma alla prima opinione.

Questo perchè niente più di quest'arte, come io la considero, richiede cura, dovizia, sacrifici, pazienza e attenzione, perchè nessuna tecnica artistica odierna trova la propria origine neglia atavici yempi della nostra preistoria come la body-art, la quale nell'epoca delle sue origini simboleggiava il desiderio umano di avvicinarsi di più all'invisibile mondo della religiosità o di unore il proprio corpo agli elementi più puri della nostra terra, del nostro mondo.

Mentre oggi ci si tatua per trasgressione o si ricorre alle varie mode del piercing o del marchio a fuoco per ribellione contro gli schemi perfezionisti di una realtà medio-borghese, in passato la pratica del tatuaggio, del piercing e della marchiatura a fuoco erano connotate da un'aura di misticismo e tradizione magica.

Basti pensare ai Maori della Nuova Zelanda o dell'Australia per vedere come i loro corpi decorati dall'inchiostro o dai monili fissati alla loro pelle, facciano parte di una tradizione secolare che si perde negli usi di una civiltà che non ha voluto rinunciare alla primitività.

In tempi odierni la body-art, come qualsiasi arte prolungata nel tempo, si è evoluta seguendo la via della sperimentazione e dell'innovazione, così si è passati a veri e propri impianti chirurgici che vanno a conferire al corpo caratteristiche come corna o rilievi particolari sottopelle, grazie all'inserimento di forme di acciaio chirurgico sotto l'epidermide.

Cade quindi il canone dell'arte su tela o materiale, cade il concetto di un'arte esposta a tutto il mondo,l'arte diventa parte della propria essenza personale, resa nota solo a pochi eletti o comunque a meno spettatori di quanti ne abbia l'arte "canonica".

il corpo diviene così portatore di arte ed il dolore provato per sobbarcarsi di simile carico non sminuisce la soddisfazione finale dell'opera comlpetata, a volte dopo sedute durate mesi, dal mio punto di vista un sacrificio sublime e accettabile a chi si dona all'arte, secondo l'opinione di molti una trovata sciocca e trasgressiva di balordi, scapestrati e sempliciotti.

Daniele Tartaglia

venerdì 31 agosto 2007

Il Wingelosk



I draghi che ho disegnato e che disegno tutt’oggi, nelle mie spinte ispiratrici, hanno la capacità di volare, molto spesso, quella di vivere agiatamente sulla terraferma, quasi sempre, fondendo insieme l’elemento acquatico e terrestre e dando quindi a queste creature una sorta di adattabilità universale al mondo di cui rappresentano parte della forza.

Il Wingelosk, per me un altro figlio della mia sola immaginazione, doveva rappresentare il re assoluto e incontrastato del cielo, non perché fosse il drago più temibile e potente in assoluto, ma perché la sua conformazione fisica e il suo modo di vivere erano indirizzati solo ed unicamente per un esistenza aerea.

Fondamentalmente l’idea base era quella di una creatura in eterno volo perché se solo scendesse a terra sarebbe vulnerabile anche ai predatori più comuni, per questo lo avevo munito di ali enormi e di un corpo relativamente piccolo, di zampe anteriori robuste adatte ad afferrare le prede e sbranarle in volo, ed infine di una coda prensile munita di un arpione osseo aggiunto solo in seguito alla mia prima rielaborazione.





Il primo bozzetto del Wingelosk ci presentava questa creatura come una sorta di drago deforme, la cui unica fortuna era quella di possedere delle ali maestose, in grado di renderlo temibile e potente nel suo ambiente naturale ,il cielo






Il mio rifacimento intendeva dare al Wingelosk una nuova forma, un drago che non era deforme ma che rimaneva comunque terribile, sia nell’aspetto che nel modo di cacciare, una creatura i cui arti e le cui caratteristiche fisiche stavano ad indicare un forte adattamento alla sua condizione di essere celeste, anche il colore infatti era la chiara evidenza di tale adattamento.

Storia riadattata del Wingelosk dal quaderno di “Monsters”.

“Altro esponente delle razze primordiali, il Wingelosk era un temibile predatore dei cieli, una creatura le cui zanne erano in grado di sbranare in pochi minuti anche animali immensi, una volta arpionati con al sua coda e afferrati con le possenti zampe anteriori.
Era molto vulnerabile sulla terraferma, a causa del poco sviluppo avuto dalle sue zampe posteriori, e per questo camminava molto lentamente durante le sue brevi fasi vitali in cui era costretto a terra dal bisogno di accoppiamento o dal periodo in cui le sue immense ali facevano la muta della pelle membranosa che le rivestiva .Infatti questo drago conduceva la sua vita perennemente in volo, cacciando e cibandosi con quanto cacciato in volo, mettendo a riposo metà dell’emisfero cerebrale, come fanno oggi i delfini, invece di dormire adagiandosi su qualche giaciglio a terra. Sopravvissuto fino all’avvento delle prime città umane , era conosciuto anche con il nome di torcia alata, dal momento che quando sorvolava le città o i presidi questi subito dopo ardevano di un fuoco distruttore ed indomabile fino all’estinzione spontanea che significava sempre la completa distruzione di quanto bruciava. La sua razza non si estinse mai ma segui un’evoluzione che lo fece conoscere con nomi diversi nel mondo.”

Tecnicamente non ho usato effetti particolari nel mio rifacimento ultimo se non quello che è denominato “Gradient” per l’effetto della luce del sole al tramonto il cielo dove il nostro protagonista sta volando in tutta la sua maestosa eleganza.


Daniele Tartaglia.