sabato 12 maggio 2007

Das Leben der Anderen


Premio Oscar come miglior film straniero, acclamatissimo dalla critica e dal pubblico, da alcuni ritenuto il film della stagione e quello che riporta il cinema tedesco a fasti degli anni Settanta.

Non ha bisogno di presentazioni il film di von Donnersmarck, una storia umana di redenzione nella forma di un elegante thriller sullo sfondo plumbeo della Germania dell’Est del 1984.

Uno dei primi e ancora pochi film che rompono il tabù che il popolo tedesco ha con il proprio passato, in questo caso la DDR (Repubblica Democratica Tedesca), finora preceduto dagli ironici Goodbye Lenin di Becker (2002) e Zucker di Ubchen (2004).

Un ufficiale della Stasi, la temutissima polizia della Repubblica Democratica, viene incaricato di spiare una coppia di intellettuali apparentemente allineati con il regime, ma il loro dissenso, una volta trovato o costruito, può far comodo a eminenti dirigenti del partito.

Il successo o il fallimento di questa operazione può far decollare o distruggere le carriere degli ufficiali della Stasi coinvolti, dato il rapporto clientelare che intercorre tra i politici e i membri della celebrata e temuta “spada e scudo del partito”.

Il film è attraversato da due filoni paralleli fortemente strutturati tra loro: il “sistema” e una coppia, mediati da due personaggi che testimoniano la caratteristica della natura umana di rimanere in bilico tra scelte etiche e scelte egoistiche, e di essere trascinata dagli eventi nell’una e nell’altra direzione.

Da una parte l’uomo del sistema, gradualmente redento dal contatto con la coppia che deve spiare, dall’altro la donna, sempre più traviata dal sistema. Due cambiamenti di campo che costeranno molto a entrambi.

Prima accanto e poi di fronte ai due personaggi in metamorfosi, stanno i due omologhi che non abbandonano i rispettivi schieramenti e sopravvivono alla fine di questi ultimi.

La storia prende la forma di un thriller estremamente elegante che realizza pienamente la forte presa sul pubblico tipica del genere, senza ricorrere a quegli espedienti inflazionati impiegati come ornamento per supplire alla povertà di molti film di successo effimero.

La narrazione non subisce facili accelerazioni né indugia su banali patetismi tipici di un uso premonitore della musica. Allo stesso modo l’unica vera svolta narrativa, corrispondente alla scoperta del reale andamento dei fatti da parte del protagonista, non è sfruttata con dilatazioni temporali e musiche didascaliche come riuscirebbe troppo facile per un regista meno maturo.

Al film non mancano punte di ironia, ma non sono funzionali ad una rappresentazione edulcorata della DDR come nel precedente Goodbye Lenin. Ciò nonostante non cade nella rozzezza semplificatrice di mostrare un regime con quei caratteri di grossolana brutalità che è normale aspettarsi: qui il “male” è molto sottile e professionale nelle sue pratiche e non è motivato dal fanatismo quanto piuttosto dall’interesse in un sistema allo stesso tempo oppressivo e corrotto.

É una Repubblica Democratica molto diversa dalla benigna guardiana di moralità di Goodbye Lenin, bensì è una macchina spietata che allontana ogni velleità nostalgica. A onore del bellissimo e leggero film di Becker va detto che la sua spassosa rappresentazione del regime è consapevolmente e dichiaratamente fantastica.

Il film si chiude con ottimismo sulla redimibilità della condizione umana, seppure con la malinconia di considerarne i costi e l’implicito bilancio dei sopravvissuti al regime e di quelli del regime, nettamente favorevole ai secondi che non hanno pagato e si sono probabilmente reinseriti con successo nell’ampliata Repubblica Federale.

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