giovedì 12 luglio 2007

Parliamo del male, della tecnologia e del volto umano

Consigli di un giovane ai giovani sulla perdita del senso (introduzione alla seconda parte)

Le discussioni avanzate sulla questione del sacro nella scienza e nella conoscenza non sembrano essere molto feconde quando si voglia fare della nostra vita (e della sua progressione nella storia) un ammasso di tensione verso un apprendimento indeterminato: l’idea di una certa gerarchia tra livelli non può essere ammessa se tutto il nostro elucubrare è in sostanza un agglomerato di materia in movimento in continua evoluzione adattativa.

Rispetto a ciò voglio mostrarvi, continuando sulla scia della perdita di senso, che uno dei mali maggiori sia rinunciare alla gerarchia nella vita e con essa della storia. Un tale paradigma infatti è totalmente opposto a quello che fa della conoscenza un concetto scambiabile con quello di evoluzione biologica, ossia di quel processo che ingloba ogni forma vivente, da organismi monocellulari all’essere umano, e per cui ogni passo verso una soluzione di problemi verrebbe definito come tensione verso una conoscenza: più precisamente verso quella conoscenza che ci è utile, anche perché non si capirebbe perché dovremmo risolverla.

Bene, questa teoria ha come conseguenza che: 1) non domina il caso, o meglio che esso sia da considerare come assodato, essendo il principio di determinazione dei fenomeni e della loro possibilità, un principio che può essere tanto all’origine quanto superfluo per la spiegazione della tensione conoscitiva; 2) il vivente non fa nulla per caso, ma spinto dalla sua natura, casuale poiché facente parte dei fenomeni, cerca di soddisfare i suoi bisogni incominciando con una conoscenza del suo ambiente, costruendosi in modo autonomo i mezzi per orientarsi, distinguendo tra i vari fenomeni ciò che gli è utile e ciò che è da evitare, istaurando in generale modelli, organizzando dati che oltretutto si comunica nelle generazioni e nelle specie come insieme di conoscenze base suscettibili di ritocco.

Ora ci troviamo di fronte ad un bagaglio biologico sedimentato ed a un bagaglio culturale in fieri, il primo in evoluzione lenta, il secondo in evoluzione velocissima. Cosa ci rimane da fare? Nulla, tranne spiegare ed unificare tutti i nostri continui riferimenti a nuove operazioni scientifiche, a nuove intuizioni, a nuove ricette e scoperte, a nuovi tabù, a nuove religioni, ad improvvise rivoluzioni, come parte della nostra continua evoluzione culturale e man mano biologica: vi basta? ci basta questo per la filosofia, per i dotti, per i logici, per i matematici, ma anche per i politici, per i giornalisti e per tutti i giovani studiosi che cercano di risolvere i problemi loro e del loro tempo?

La mia risposta è che non basta, e che la pretesa di ricondurre la nostra conoscenza ad una conoscenza non mi è utile: ma perché?

Il presupposto del ragionamento della “conoscenza come soluzione di problemi” non solo risolve il problema di cosa sia la conoscenza, ma riesce ad evitare e scacciare ogni pretesa scettica o dogmatica che si voglia, dato che non presuppone di conoscere alcunché: se la conoscenza è la risoluzione di problemi, per questa teoria una volta arrivati alla soluzione si dovrà ricominciare da capo ponendo come base l’ ultima fatica e ricominciare da capo. Perciò non si vuole spiegare la conoscenza ma eliminare la supposizione che con questa parola noi ci fermiamo alla prima formulazione di una dottrina o alla prima soluzione del quesito.

Che la vita sia un continuo divenire, non so quale miracolo possa negarlo, ma che la teoria dei numeri sia qualcosa di utile per il genere umano, come la ricerca di cibo, è una comparazione di cui non trovo il fondamento. Ma mi ribatterete, anche le cose più noiose o inconcludenti sono conoscenza, perché in quanto prodotti della mente umana soddisfano il criterio di essere conoscenza, i quali non possiamo penetrare nella loro essenza, ma solo nella loro esistenza, mezzi che appunto non sono utili: ma anche l’inutilità è conoscenza, anche nel nostro organismo c’è qualcosa di inutile, nulla è programmato esattamente, anzi il progetto ce lo costruiamo noi, nella nostra biologia, in cui anche l’inutile è utile, anche la completezza è da considerarsi incompletezza: tutto quello che volete, ma chiaramente tutto è conoscenza! Questo è il motto della soluzione di problemi.

Ora, che i procedimenti di conoscenza scientifica abbiano una loro difficoltà ad essere ridotti a procedimenti certi è evidente dall’approdo modellistica della matematica: modelli probabili per la spiegazione di fenomeni circoscritti. In pratica la soluzione diventa un modello, e non ci importa più di una nuova soluzione, ma che si mantenga costante questa spiegazione con le previsioni. Se poi ci vogliamo chiedere come si approda al modello, come lo scopriamo, cosa sia la conoscenza, lì corriamo il rischio di essere tacciati di stregoneria se ci azzardiamo a dare delle spiegazioni, oppure se vogliamo fare della storia della scienza veniamo bollati di vuote considerazioni, perché è vero che la scoperta è importante ma l’utilità è ancor di più.

Andatelo a dire a Keplero, a Cartesio, a Newton se era più importante il loro metodo o la loro fede: vi avrebbero arsi vivi (con un semplice sguardo chiaramente!). Questi signori erano dei mistici, anche a loro insaputa a volte (tanto era inscindibile la metafisica dalla fisica modellistica ante litteram). Chi dice che alla fine scienza, fede e filosofia si riducono a tensione verso la conoscenza io rispondo: scienza, fede e filosofia ovvero Dio. Si vabbé, ma anche la religione, lo sanno tutti, è un prodotto del costume, un prodotto della storia e come tale della vita, delle cellule e allora: è una soluzione di problemi non è evidente?

No, non è evidente, soprattutto perché la storia della scienza e la storia in generale non si spiegano con un metodo risolutivo o ipotetico all’infinito, dato che essa è un fatto, e non si può svuotarlo, il fatto, e spiegare il tutto: il tutto è attuale come mai, il fatto è di una inattualità che supera il tempo. Sono ermetico, ma la materia richiede qualche sortilegio per essere compresa.

Il problema maggiore non è qui spiegare perché le civiltà umane abbiano certi processi in comune, certi organi in comune, i due occhi nella stessa posizione. Il problema è perché non si sono evolute culturalmente nello stesso modo, e soprattutto perché in questo diverso approccio incorra sempre il ricorso ad una divinità. Se non si sta attenti a questa premessa si rischia di rimanere immobili di fronte alla nostra cultura o peggio di spiegarla avendo di fronte un sussidiario che ce ne fa un riassunto con i termini e i capitoli già belli che pronti: questo procedimento infatti si chiama l’attuale, l’interpretazione data con i termini dell’attualità.

Ma se ci fosse bisogno soltanto di un libro di algebra del primo anno per poter spiegare la nascita dell’algebra non ci sarebbe stato bisogno neanche di inventarla, e di questo passo tutto il nostro quotidiano essere non sarebbe che ammirazione della forma senza ritornare ad essa, a fare parte cioè di essa. Il tema in questione non sarà riunire le conoscenze e contemplarle, ma risalire alla conoscenza e farne parte. Ed è proprio questa unione, che tanto si perde nell’ altra riunione, che ci rende indistinguibile la forma e ce la fa presentare come divina, come tensione certo, ma non sempre come utile, perché a volte il nostro potere è inutile e controproducente per il concetto di vita che ancora attualmente stimiamo valere.

Parliamo allora di utilità, di produzione e prendiamo come esempio il periodo più illuminante del nostro cammino, il quale erroneamente è stato costretto a chiamarsi da certi ragionevoli uomini Secolo Buio. Questa sarà la seconda tappa per cercare di riprendere il senso e farci capire quanto la questione nei confronti del sacro non sia accessoria ma all’origine di qualsiasi modello di conoscenza possibile: Dio è evolutivo quanto un recettore di un ameba, ma a volte la sua utilità ha fatto fare progressi ad una civiltà e condurre nel baratro altre, e la mia domanda sarà perché a volte il senso del sacro è utile mentre altre volte è letale, perché un modello è valido e un altro è sbagliato, perché l’uomo sbaglia continuamente mentre ricerca il suo problema, mentre costruisce la sua cultura, mentre approssima all’infinito.

A detta di molti questo non è un problema, né risolve un problema, perché il ricorso a Dio è solo un ulteriore risoluzione sbagliata del problema: ma allora la mia domanda, in questa introduzione, è: se non sto in questo caso risolvendo nulla della conoscenza, sto risolvendo un problema o non sto risolvendo nessun problema?

L’utilità di un tale modello di spiegare la tensione verso la conoscenza spero che vi faccia meditare di quanto riduzionismo e logicismo c’è nella perdita del senso nei nostri giorni.

Davide De Caprio

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