sabato 18 agosto 2007

(Al)La scomparsa dei padri del cinema (2): Michelangelo Antonioni

Quando mi venne prestato per la prima volta il film Blow-up ricordo che, dopo la visione, alcuni amici mi domandarono che cosa mi fosse rimasto impresso? Proferii mille teorie della visione e del cinema come fotogramma da sviluppare mille volte, senza però riuscire ad avere notato il “vento” nel parco che circonda ed impera nel sottofondo la scena madre dello scatto fotografico oppure del ritrovamento del corpo.

Fare caso nel cinema è l’apologia del gusto meno estetica del mondo dell’arte. Se si dovesse riflettere a lungo, il cinema di Michelangelo Antonioni si risolverebbe analiticamente come una monade di Leibniz, ma il problema principale sarebbe avere tempo, non quello materiale, ma quello filmico. Mi accorgo, dopo molto tempo, che se dovessi considerare filosoficamente i suoi film dovrei ricondurre la sua opera alla monadologia leibniziana. Solo così potrei risolvere il “vento” nel particolare della teoria della visione, perché tutto in Antonioni si comprende nel particolare e diviene identico, come identiche sono le sue storie e i suoi soggetti. Varrebbe la pena soffermarsi sulle scene iniziali e finali di Blow-up, del gruppo di ragazzi che mimano il movimento, e la fine del film che mima la cancellazione del personaggio per capire quanto vicino sia il concetto di corpo e il concetto di corpo invisibile, tra la composizione e la scomposizione: in queste immagine è completamente disgregata qualsiasi aggiunta e qualsiasi interpretazione che tenda alla novità, dato che di Antonioni non si aggiunge nulla in modo così netto.

L’altro motivo di ricordo di questo autore, sta nella lentezza, una nota comune che ha fatto grandi proseliti, da Wenders a Lynch, due autori che rivivono entrambi il Deserto Rosso ma in due continenti diversi. Il girare nel tempo, identificare il tempo, renderlo l’avventura del perdersi, non possono prescindere dal volere rendere il reale nel concetto stesso, nella morta lanterna magica di Bergman (o nella stanza barocca dell’odissea kubrickiana).

Come far rientrare l’occhio nel suo contrario è la sfida di Antonioni, che esemplifica al massimo la sua meditazione nel film da lui più amato: Professione Reporter. Non è solo il manifesto della possibilità di fare del cinema come se si facesse senza girare alcunché, ma è la liberazione dell’uomo dal dover stare di fronte ad una macchina da presa, è il togliersi dalla scena, come il personaggio tenta di fare, in un canovaccio illustre e pirandelliano. Ma piuttosto che di teatro, qui la rappresentazione mette in mostra l’essere fuori da qualunque palco, il cinema mostra l’impossibilità di volersi definire arte, filosofia dell’arte, arte concettuale, estetica del bello. Siamo nel campo del sublime mancato, siamo direttamente nella tensione verso un mondo ideale difficilmente identificabile perché è già tutto nel principio di identità. Lo spettatore nell’ultima scena del film viene messo fuori dalla finestra, fuori dall’azione, fuori dal film. Ciò non permette però di essere fuori dalla pellicola, perché il fotogramma resta impantanato nel suo essere completo, nel suo essere sempre privo di nulla nel momento della sua separazione da qualcosa: non si toglie nulla al cinema che non sia già cinema.

Ma tutto era già implicito dal primo sguardo che Antonioni diede alla macchina, nel documentario, nelle sue affermazioni sul cinema e sulla sua logica. Antonioni cerca la verità più che la logica, cerca il rapporto con le cose, con la materia e non il suo concetto, l’intuizione è una confusione che ricerca un ordine, l’ordine nel senso ma non l’ordine sensato. Quasi come Kubrick ma in modo più intrinseco il fotogramma del regista ferrarese è già pieno di tutto l’avvenire, già confusione di un altro film.

Questi due registi (Antonioni-Kubrick), insieme allo svedese Bergman, rappresentano la tensione essenziale per comprendere il concetto di cinema moderno, ovvero di quelle pellicole che girano se stesse e non più altri soggetti, non più “alla ricerca” ma già ricercate.

Bergman è il più prolifico perché il più carico di segni e di fantasmi, ed in questo il più pieno di vuoto o l’autore che più assomiglia all’artigiano che mette in scena il dramma del vuoto nel pieno.

Antonioni si sgancia più facilmente e con meno opere dal dramma, riconsiderando il soggetto nel suo rapporto con le cose, nella nascita di un nuovo dramma che vuole colmare il vuoto, che mette aria tra le cose, o che appiattisce gli interstizi dei prodotti della natura, allo scopo di ordinare il disordine, al prezzo della scoperta e del nuovo tempo: la nascita di un cinema nuovo avviene perciò più con i rimanda alla tecnica di Antonioni che a quella di Fellini (autore, questo, troppo difficile da mettere in scena o troppo facilmente interpetabile da non copiare).

Ciò non significa che un padre possa essere più facile da ricordare di un altro, ma che il concetto di cinema che trasferisce al figlio e ai prodotti dei figli sia più facilmente rivedibile, raffrontabile, atto all’analisi perché nato da uno sforzo di correlare, di rendere vera la possibilità logica, fare di una pellicola la storia di un cinema dell’avvenire nel tempo. Non si può capire il messaggio dei padri del cinema senza legare il loro sviluppo a sviluppi successivi, e questo la figura di Kubrick ce l’ha insegnato, riassumendo il cinema teorico, anzi distruggendolo per noia, e rappresentando la capitolazione in nuovi gesti, in nuove profezie, nell’ immagine ampia che completamente non vuole il vuoto ma lo suscita nel profondo. Lo sguardo ampio e cosmico di Kubrick è già il desiderio di mettere ordine nelle sequenze di Antonioni come di cercare la luce d’inverno dei miraggi di Bergman.

Da un’intervista del 1967: “Oggi sarebbe d’aiuto trovare tutte quelle regole che mostrano come e perché l’universo è fisso- in che modo questo dinamismo si sviluppa e agisce. Allora forse saremmo in grado di spiegare molte cose, forse persino l’arte, perché i vecchi strumenti di giudizio, le vecchie estetiche, non ci sono più di alcun aiuto- a tal punto, che non sappiamo più cos’è bello e cosa non lo è” (Michelangelo Antonioni)

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