sabato 11 agosto 2007

(Al)La scomparsa dei padri del cinema (1): Ingmar Bergman

Quanto il cinema sia venuto a mancare nelle ultime settimane non ha prezzo, né paragoni. Anche perché essendo un’ arte che più di tutte finge la morte non può che restare sempre indifferente alle sue manchevolezze.

Nessuno infatti si ricorderà la sequenza di un autore passato, proprio perché riprodurla significherebbe vivificarla, renderla non cinema, renderla l’omaggio al funerale senza dopo, senza paradiso, senza rito attendibile. Perciò il cinema e i suoi autori non rimangono nell’immagine quasi mai, ma solo nell’immaginarsi che il cinema riviva un giorno come ogni giorno, come in ogni pellicola che non deve avere maestro ma solo registrazione del maestro che non c’è, un nastro di moebius che appunto non ha bisogno di orientamento perché è già tutto orientato senza direzioni.

Questo disagio, che tende non tanto al mistero quanto alla ricerca di svelare un dettaglio di un mestiere, rappresenta la morte nel cinema, la morte del cinema, l’ossimoro più tragico-comico dell’opera d’arte nella sua autoriproduzione millenaria. Chi cominciasse ad avvicinarsi alle immagini filmiche attraverso Bergman o Antonioni rimarrebbe sconcertato al punto da non voler più vedere. Non è accecamento ma la fine dell’inizio. Cominciando da loro, inserendo in loro la mitologia kubrickiana e la lanterna lumieriana, si dispiega ciò che rende inutile l’atto del vedere, che lo trasforma in rivedere e poi in stravedere. Non è estetica ma controestetica, è rendere l’opera d’arte un fuori dall’opera. Di solito avviene il contrario, anche nelle manifestazioni concettuali dell’arte, nel prodotti che si fa filosofia provenendo dal pattume, dall’orinatoio a Duchamp, ma nei film il tutto ritorna ad essere tutto: filosofia del non ritorno, del non morto, filosofia del morto vivente che vede (ma cosa? la sua immagine che non vede allo specchio, o la nostra che vede lui che non si rispecchia?).

Lo sconcerto per il semplice atto del vedere mi ha condotto alla passione per la filosofia, per la conoscenza dell’amore (non per l’amore della conoscenza), l’amore del tutto che rimanda a tutto, anche al fotogramma più inutile, dato che il giudizio non si fa critica in un film, rimane saldo di fronte alla mancanza di critica, di biasimo, di stupore, di cordoglio, e sì anche di dispiacere per una perdita che pare la continuazione di una sequenza: adesso il regista muore, la troupe va via, rimane lo spettatore. A chi spetta la parole fine nel cinema sembra essere una mancanza di gusto, un disgusto del tecnicamente chiuso, della chiusura ermeticamente insondabile eppure ripercorribile all’indietro, palindroma-si rilegge la stessa cosa, fine od enif: un ammasso di tutto.

Ma allo sconcerto deve corrispondere, per una sorta di nostalgia del ritorno a casa senza padrone, anche il consiglio: cosa vedere di due registi appena morti?. Tutto è la risposta più adatta secondo quanto finora detto, ma non basta. Di un regista si deve anche aver letto, le sue parole, i suoi lavori, le critiche altrui, i libri e gli autori che stimava: un lavoro infame ma necessario.

Di Ingamar Bergman sono rimasto folgorato da “Luci d’inverno”, non per la luminescenza, ma per la trasfigurazione che man mano diventa figurazione del significato di essere “padre” o di essere un buon “padre”, un buon pastore per una comunità di pochi fedeli, essere un buon figlio e un buon marito, e soprattutto continuare a dire messa nonostante si dubiti della passione del vero padre, il Cristo.

Una parabola estesa in appena due ore di narrazione in cui è consolidato il rapporto con il senso del “sacro” più desolante e illusorio del cinema, quasi fossimo di fronte all’ Overlook hotel, e il gioco della mancanza del senso in un rito venga salvato dalla luce gelida che riconduce il trauma o la crisi del quotidiano nella sfera indeterminata ma dritta della fede (la fede nel Dio che è sempre una ricerca del padre e del figlio che compiamo in ogni atto del nostro lavoro).

Si, il sacro e la dimora della lanterna magica che ricrea il sacro nell’illusione di poterlo vedere alla luce, sono i motivi che più di tutti mi hanno spinto ad esaminare e stravedere opere a volte che mancavano di padri, che mancavano di luce, isolati come specchi, ma sempre alla ricerca dell’immagine che renda il silenzio e continui a far vedere la casa vuota (senza focolare).

Bergman è il regista del silenzio della scena, una scenografia che non è mai quella di un cinema, ma sempre di un teatrino della marionette, nonostante il lavoro di questo regista abbia toccato tutti i livelli tecnici della sua epoca. Ma anche il regista delle parabole, e del senso di semplicità che il racconto deve filosoficamente augurarci: dalla parabola mortifera-pittorica del “Settimo sigillo” alla sonata degli spettri familiari di “Sinfonia d’autunno”.

“Sussurri e grida”, il rosso e rumori di fondo tra una scena ed un’altra, come in un circo, così vicino al baraccone felliniano e al frammento satiricon di un passato che vive la sua disgrazia al cinema, un passato che si mette in scena, in costume, nel sangue del ridicolo per la sua vicinanza-assenza a quell’orologio che marca e manca sempre il palcoscenico della rivalsa familiare. Fellini e Bergman erano amici, spesso vedevano i lavori reciproci e ne rimanevano esterrefatti. Il terrore dei loro occhi per l’immagine dello stesso effetto-cinema mi ha sempre incuriosito, facendomi interpretare le sfere di entrambi in bilico tra l’ironia del tragico e il dramma della festa.

Come non si finisce mai di giocare con la morte, così Bergman non ci lascia mai finire di giocare con il cinema, come non ci lascia mai dire di no, di finire una storia, dato che non si può mettere fine al teatro. Nel momento in cui c’è stato un fiat, il cinema è nato per suscitare la sua morte in primis, quella dei suoi autori in perenne continuazione, fino all’esasperazione del complotto, del giallo nel quotidiano, delle marionette che diventano assassini di sé stesse. Non riuscirò mai allora a staccare il filo conduttore dal “Posto delle fragole” a “Un mondo di marionette”, entrambi sulla stessa strada, non perché dalla stessa mano, ma perché nello stesso mezzo riproducono il mondo che si guarda allo specchio e non può non ritrovarvi che tutto quello che c’era stato. Quando allora l’autore dello specchio se ne va, non rimane che l’immagine del mezzo, come era sempre successo, come in uno specchio che per natura non restituisce il suono, ma che per ritualità ristabilisce il silenzio e nel silenzio non rivela la sua immagine (quella dell’autore di tutte le cose, del padre di tutti i figli, del regista di ogni lanterna).

Da il “Posto delle fragole”: “ Scivolo facilmente in un mondo crepuscolare di ricordi e sogni assolutamente personali…E’ come se cercassi di dire qualcosa a me stesso, qualcosa che non voglio udire quando sono sveglio…Che sono morto pur essendo vivo".

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