sabato 29 settembre 2007

Appunti di Ear Training

Nel corso del mio insegnamento in campo musicale ho riscontrato spesso delle lacune importanti.

Tutti abbiamo delle pecche, tutti dobbiamo imparare man mano qualcosa, ma questo non toglie lo sviluppo di conoscenze che si sono acquisite con un minimo di sufficienza e di padronanza.

Ciò che soprattutto manca nell'insegnamento di oggi, e non parlo solo della musica ma anche di tutto ciò che è sapere (le lacune matematiche ne sono un esempio), riguarda il rapporto con il concreto, con la materia che si studia: attenzione, non l'ambito, ma la materia ossia la sostanza, l'esempio, l'applicazione non l'astrazione.

Il problema che si ha con la musica diventa allora soprattutto un problema di suonare uno strumento, di suonarlo insieme ad altri e mai di fare silenzio, di ascoltare da soli o di ascoltare insieme ad altri. L'ascolto nella musica viene prima del suonato, e viene prima di ogni tecnica applicata su qualsivoglia strumento. Come il vedere per una dimostrazione geometrica, o il sentire con le mani prima di una scultura o di una costruzione materiale.

I sensi prima di tutto, ma quali sensi? E non scendiamo nella butade della mancanza di senso nei nostri giorni. Piuttosto chiediamoci: perché avere un senso? Si perché, prima di qualunque speculazione bisogna sentirne il senso, assumerne l'orientamento e poi fondare una argomentazione che ci porti al di là del senso, e quindi in una nuova acquisizione di sapere. Ciò non esclude però l'errore. C'è errore anche quando si ha senso, quando si sbaglia il senso e si crede di volere apprendere nel momento in cui si finisce di apprendere: non è che si perda senso ma è il senso giusto quello che ci manca.

Sulla giustizia dei sensi si dovrebbe farne un capitolo a parte, cosa che ci porterebbe nella galassia del diritto ad avere un senso giusto da parte di chi ha il ruolo di tutore od insegnante. Su questo punto c'è ancora molto da lavorare. Credo sia meglio addentrarci nel senso di quella sostanza di cui parlavo sopra, ed è forse proprio con gli oggetti che il senso di una materia può orientarsi ed apprendere più di quello che normalmente può incamerare un senso ridotto a precetti d'abitudine: il buon senso o senso comune.

Un avvertimento: il senso comune è fondamentale, poiché rimane una pietra di paragone ineliminabile nei nostri impegni e nel confronto con i nostri simili; addirittura è la componente essenziale e quasi mai visibile di ogni nostra comunicazione con i nostri simili. Senza il buon senso non ci accorderemmo neanche su cosa sia una mano, se quella con cui sto scirvendo sia la mia mano o non la vostra.

Ma il senso di una materia che ammette una sua estensione o che si presume possa essere una propedeutica allo studio della sostanza-musica è qualcosa d'altro. In una nuova materia non si cerca il buon senso, ma si deve cercare di capire in quale senso bisogna svilupparla e quali conseguenze questa scelta e ricognizione possano avere sul più normale dei sentimenti associabile alla abituale frase: "fare musica".

Fare della musica significa prima cosa: non farla. Disfattismo? No. Quando voi volete fare della matematica o della filosofia cosa credete di fare al primo impatto?: certamente fare dei calcoli, imparare delle definizioni, conoscere la vita di Cartesio, ricordarsi a memoria alcune massime, addirittura ricordarle e citare in un contesto. Niente di tutto questo.

Fare della musica significa rimanare fermi, posare gli strumenti, posare i sensi e abbandonarsi ad un senso: l'orecchio, l'ascolto, il senstirsi tramite udito.

Ma a che serve? Uno non si ascolta pure suonando il proprio strumento? No, non si ascolta, anzi non riesce ad ascoltarsi quasi mai, è gia virtualmente in uno stato di annichilazione: io e il mio strumento significa: io e la mia mente non io e il mio orecchio e il mio strumento.

Il problema fondamentale però è che in ogni conoscenza il fine è proprio quello di riportarci ad uno stato di dialogo tra noi e la nostra mente: cioè il suonare, quello professionale o quello artistico di un certo livello, comincia man mano a diventare un colloquio con la mente piuttosto che con il senso addetto allo sviluppo del suono. Il fine di un lavoro è il risultato?No. Il fine di un lavoro è la riflessione che si fa su di esso.

Come si impara a riflettere? Non certo con la musica direte voi. E io risponderò che certamente la riflessione con la mente è un affare privato, una rinuncia al contatto con la comunicazione dell'istinto, con il dialogo della bestia che c'è in ognuno di noi, con l'animale che razionalmente si spoglia del suo ruolo per affacciarsi nella pampa del concerto e nel concertare si avvicini allo scopo del travaglio: lo sfogo di una nota (oppure la strage delle note).

Ciò può accadere, come accade di andare in vacanza, come accade di giocare una partita tra amici, o tra nemici, o in un amplesso tra amanti.

Ma si riflette in questo? No, ma ci si abitua ad avere a che fare con il senso comune, che è già una grande vittoria, una uscita dal mutismo, dalla coazione a ripetere le stesse operazione mentali senza mischiarle con l'operazione dell'uomo che passeggia sulla terra per cui è stato creato (alcuni dicono sviluppato, ma va bene lo stesso in questi casi).

Quando dobbiamo invece metterci seduti, di fronte magari ad un libro, ad una immagine, a ciò che è sempre stato il più noioso passatempo della storia, di fronte cioè ad un insegnante, allora il senso deve cambiare e bisgona scegliere di avere a che fare con qualcuno che ci sta indicando come si rifletta a partire da una senso ben preciso, come si possa cioè vivere in una giungla ma usando la mente e discernendo le possibilità di svolta: sembra facile per voi orientarsi in una giungla, qual'è il nord, la stella polare vi è di aiuto certo ma come fate a trovarla, vi servono anni di studi di astronomia, ma cos'è l'astronomia, vi serviranno anni di paure e tensioni nei confronti di un cielo stellato che rappresenti non immediatamente un astrolabio ma un abitaculum electorum, un cielo cristallino, una sfera di stelle fisse, che ruota e trasporta delle cose che sembrano essere completamente diverse da voi, cioé immutabili e proiettate verso la cupola dello zoodiaco: quanto dev'essere stato faticoso eliminare il buon senso dell'astronomia tolemaica e vedere in Copernico un universo che lo potesse sostituire.

Appunto che senso ha? Che senso ha imparare ciò che già si fa normalmente dal primo giorno della nostra passeggiata sull'ecumene? Ascoltare sembra per voi una acquisizione semplice e necessariamente facile? Non lo è invece per nessuno, perché nessuno ha mai ascoltato qualcosa con la mente, cioè con lo scopo di farne un ragionamento, una parafrasi, un discorso sul senso e non una sensazione razionale.

Credo allora che affrontare un corso come quello che affronterò quest'anno presso l'Università della Musica, Ear Training, sia il primo vero programma che dovrò sviluppare senza dover suonare qualcosa, e questo mi rincuora. Non perché non voglia suonare, ma perché non bisogna solo suonare nella musica.

L'educazione al suono e all'orecchio è prima di tutto uno studio fisiologico, che deve cominciare con la vista, con la vivisezione dell'udito. Poi deve proseguire con l'ascolto dei rumori, dei segnali, dei suoni che non sono fatti per la musica canonica. Proseguendo per questa strada si dovrà capire che il suono educato è un suono artificialmente programmato, un senso comune che è diventanto razionale, sottoposto a temperamenti, a storia della musica e stili che nel tempo si dimenticano o si fondono come l'arte dell'alchimia nella scienza della chimica.

Perciò ogni sabato, scriverò su questo blog, che è anche uno spazio musicale, degli appunti di ear training, facendo partecipare ogni lettore al programma dell'esame ed intrattenendolo nello studio di una materia capitale: l'allenamento dell'orecchio.

Ma come, a parole? Si, perché non credo possibile allenare nessuno in nessuna cosa senza stabilire un linguaggio, soprattuto quando non si tratta di uno sport. Non si può allenare uno strumento che non va in gara, è come fare in palestra della ginnastica per la mente. L'orecchio è come la mente per il musicista, e come la mente va allenanto facendogli prendere confindenza con le procedure della riflessione mentale, con la conoscenza dei testi della musica, gli errori della musica, le abitudini dei suoni e le loro armonie che nel tempo cambiano di aspetto e nella storia soprattutto di significato.

E' dall'inzio, anche prima di uno studio teorico sulle nomenclature ufficiali di un impiego, che bisogna indirizzare l'orientamento insegnando come da una posizione data, il suono, trovare il levante e gli altri punti , ossia gli altri suoni e le loro conseguenze e rapporti.

Come la mente deve fare a partire da una parola o da un autore, cercando di dedurre e creare una serie di mondi interconnessi ad un tema, così il musicista riuscirà a poter parlare con lo stesso linguaggio del filosofo, del letterato o del matematico, riportando la musica sotto quell'antico quadrivium che tanto bene fece all'organizzazione del sapere universitario del Medioevo: geometria, astronomia, aritmetica e appunto musica.


Davide De Caprio

giovedì 27 settembre 2007

La Birmania ci interessa?

Riapriamo le danze sul Matblog e ci vorremmo chiedere subito, in modo non buonista, che cosa suscita in noi e quali riflessioni debbano richiamare alla mente e al corpo le notizie sul Myanmar (ex Birmania).

Non rientra certamente in uno spazio dedicato all’arte, alla musica e alla tecnologia, ma non si può rimanere muti davanti alla mancanza di senso della nostra risposta, sia interna che esterna. Nel cuore di tutti i singoli dell’Occidente sicuro, in cui si può fare di tutto (nella coercizione di doveri e relativi diritti), si può manifestare per un governo, contro un governo, contro il sistema, si può invitare un personaggio come Ahamadinejad nelle più prestigiose università e si può farlo proferire su ogni quisquilia (antisemitismo, inesistenza dei lager, omofobia e eliminazione dei gay, la donna islamica che è più libera di quella della rivoluzione sessuale a noi cara), in questa torre di Babele tecnologizzata ed industriale, in cui si può lavorare, essere licenziati, trovare un nuovo posto, crearsene un altro (se ne si ha voglia), scegliere la propria religione, cambiarla durante l’arco di una vita, fare figli o non farli, vivere in famiglia e non considerare famiglia la trinità ma qualsivoglia contratto o pacs o associazione tra animali; ma soprattutto nel nostro caro Occidente dove dalla seconda guerra mondiale (il riflesso di un delirio e di una fine tragica della filosofia del potere razionalmente “chiaro ed evidente”dell’uomo e della religione pagana dell’”uomo dio dell’uomo”) ci si riunisce, in assemblee o in sedute internazionali, si può esprimere un voto o un veto, si può fare una battaglia e vincerla, si può cambiare “regime” a seconda dell’elettorato; bene, in questo crogiuolo di ciò che chiamiamo democrazia il nostro cuore certamente prova disgusto nel vedere dei monaci e una popolazione in ostaggio di un gruppo di militari sullo scranno, lo stesso disgusto che proviamo per le persone che non hanno da mangiare, che soffrono per un destino infernale, ingiusto, senza provvidenza, senza ripartizioni uguali, senza un senso uguale. E allora la nostra pietà ci invita subito a radunarci, la nostra voce che conta e che per fortuna è visibile su ogni mezzo (stampa, televisione, radio, internet) farà il giro del mondo, colpirà anche il cuore e l’anima di quei militari che dovranno accettare per forza l’inviato dell’Onu, perché questo è il responso della civiltà progredita, quella dei veti legittimi della Russia e della Cina, quella modernità fatta di pietà e di dialogo ad oltranza, tra Wojtyla e Gandhi.

Ho espresso un periodo molto lungo per reificare il nostro atteggiamento più immediato, che più riflette la nostra azione quotidiana, quella del senso comune; ma c’è anche chi insieme a questa non violenza vorrebbe più azione, che bolla il veto dei due giganti Orientali, che non si fa capace dell’atteggiamento equivoco della Cina quasi capitalista, quasi europea ma che non sente di condannare le uccisioni religiose. Allora penso e rifletto, passando ora alla mente, dopo aver fatto sfogare il cuore e l’istinto: siamo così sicuri che sia facile creare la democrazia? Siamo sicuri che possa nascere dalle parole o dall’invio di un delegato? Siamo sicuri che l’uomo sia portato un giorno o l’altro a creare una federazione, un corpo politico, un cambio di regime che si possa chiamare cambio di governo? Siamo davvero sicuri che nel mondo secolarizzato e laico il valore di una religione sia da mettere da parte, che possa nascere la democrazia ed andare avanti in modo puro, seguendo l’etica senza dio, nella creazione di un primo vero potere razionale, laico, eticamente equidistante, politicamente neutro?.

La lezione che possiamo trarre è che l’unica civiltà che è riuscita in questo progetto la ritroviamo in Occidente, in special modo nell’Occidente dell’Inghilterra e degli USA, e con più fatica nel resto del continente. Chiaramente il modo in cui ci si è arrivati ha dovuto ricorrere alla violenza e alla guerra tra gli uomini e alla eliminazione di alcune giustificazioni tipiche dell’onnipotenza dell’uomo solitario al potere: la schiavitù e l’intolleranza religiosa, insieme alla chiusura della circolazione di conoscenza.

Bene, quello che vediamo e sentiamo oggi è un gruppo di monaci che si ribella al potere di un manipolo di militari, anch’essi dei religiosi, ma che evidentemente non hanno mai avuto a che spartire con il diritto alla religione. Il significato vero di un massacro è che l’uomo non vince da solo, non sconfigge il male senza l’aiuto e la collaborazione di un senso diverso dell’essere mortale. Tra tutte le religioni e le tradizioni etiche i valori giudaico-cristiani sono stati gli unici che nel loro progresso hanno consentito ciò che il loro credo professava (“Date a Cesare quel che è di Cesare”), le uniche che non hanno ostacolato il progresso se non per guerre intestine ( riforme e controriforme), che hanno consentito di proseguire nei loro valori e nei loro veti senza scatenare altre guerre religiose in nome di un Dio irrazionale. Purtroppo l’uomo a volte non sa limitarsi alla sua propria ragione, travalica i principi tradizionali e la sua stessa sicurezza di trovarsi in una società giusta: alla fine l’uomo senza un accordo ben preciso su cosa sia giusto e cosa significhi avere un’ autorità tra i suoi simili si “gioca la libertà” e con essa la sua stessa ragion d’essere.

Il popolo della Birmania ha ragione, è nel giusto, rivendica quello che l’Occidente ha sofferto di fronte alla dittatura dell’uomo che è la superstizione di sé stesso. Siamo di fronte al rinascimento di una cultura che vuole essere come la nostra, che vuole al potere chi ha votato e chi è stato insignito del premio Nobel sul nostro suolo.

Cosa fare? Immagino, le marce saranno tante, gli appelli a non finire, ma non si può non vedere che c’è una pecca in tutto questo: siamo degli scattisti senza il senso della gara. Non ho mai sentito dalla nostra intellighenzia una sola parola su questi regimi, mai un intervento duro da parte di quell’insieme di paesi che dovrebbero rendere il mondo uno spazio più democratico: l’ONU. Non si è mai detto nulla, oppure, se si è fatto, non ci sono state mai conseguenze pratiche, cosa davvero strana in un mondo così veloce e così immediato nell’efficienza dei suoi servizi. Non vedo risolversi nulla sul lato Darfur, sul lato Zimbabwe, o sul lato nascosto di quel paradiso marcio di Cuba. Ma per fortuna ho speranza in due tre persone che sicuramente il mondo odia, o imparerà ad odiare presto, ma che vi invito a seguire perché se avrete il coraggio di farlo vi accorgerete che nelle loro parole e nelle loro scelte (di politica interna come di politica estera) c’è un filo comune di intesa, una speranza che da ormai dieci anni sta travolgendo e avendo dei risultati (lenti e sanguinosi ma signori è la storia e non possiamo sottrarcene come anime belle!): Bush, Sarkozy e Brown. Sento in queste ore plausi per le loro parole, a volte una certa resistenza e delle trovate carnevalesche (il “Corriere della sera” che pubblica come notizia importante il gobbo suggerente le pronunce al presidente degli Stati Uniti, una satira da Europa pigrona e priva di iniziativa, scattista ma sempre dopo gli altri), a volte delle riserve ancora più gravi, come per dire “attenzione” il presidente del male insieme ai suoi compagni (un po’ come il regista Moore) stanno cavalcando l’onda, approfittano per rendersi belli.

Credo di essere una delle poche voci che segue gli sviluppi dell’ala neoconservatrice degli USA, ma oltre alla simpatie (studi e leggo i filoni ispiratori di questa visione del mondo come Karl Lowith e Leo Strauss) non vedo altre “voci politiche” che si muovono, non vedo altri presidenti che quando vengono rieletti hanno il coraggio di affermare: “La politica degli Stati Uniti è quella di cercare e di sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo finale di porre fine alla tirannia nel mondo”. Molte persone che ascoltano e vedono su You Tube la caduta dei monaci e con essa il diritto alla vita del popolo della Birmania devono riflettere adesso con la mente, riflettere sulle prossime ore, sul delegato dell’ONU e la mancanza di sanzioni e di un duro monito, del veto della Russia e della Cina, della pressione dell’amministrazione Bush che da alcuni mesi (chi voglia dei dettagli può richiederli) fanno pressione su Ban Ki-moon in relazione al regime tirannico dei militari che arrestano e ammazzano monaci.

Questo articolo lungo è uno sfogo certo, ma anche una riflessione in ultimo determinata dal fatto che non ritrovo altre importanti forze vive nel mondo in lotta con il male. Perché il male c’è, non è finito con il relativismo delle culture; certo alcuni credono che il male risieda anche a casa nostra, e ne sono convinto anche io, ma stento a credere che da una cotale torre di Babele che svolge i suoi compiti in modo così limpido e così visibile possano nascondersi occulte manovre, occulte macchinazione che nonostante la forte democratizzazione riescano a far crollare delle torri, a fare guerre energetiche che impegnano risorse ingenti, a mettere ai voti chi li ha portati sul baratro, a processare chi ha sbagliato, a svolgere commissioni di inchiesta, oppure a rassegnare delle dimissioni quando si sa di aver sbagliato: o siamo degli idioti o votiamo degli idioti.

La democrazia non uno sviluppo necessario, essa accade in un paese in cui c’è un alto senso di responsabilità, in cui quando si viene eletti si portano i propri risultata ad un banco di prova internazionale, si paga lo scotto di essere definiti dei tiranni ma poi si va all’Onu come unica voce fuori dal coro a dire che bisogna combattere senza se e senza ma i tiranni geneticamente fuori dal consorzio umano. Spero che tutti i nostri sforzi servano e conducano ad un risultato comune, ma essendo molto pessimista sulle sorti dell’uomo che crede di trovarsi nel mondo secolarizzato, non credo che si avranno grandi risultati nella Birmania se non si segua una linea dura, una linea che è faticosa e che faccia render conto fino nell’intimo dei nostri cuori che il male del mondo per non esistere dovrà vincere un potere che è alla sua altezza, che porta alla pace certo, ma che, signori miei, nasce dagli errori, dalle sconfitte, dalle difficoltà e dai lutti.

Emanuele Kant, che aborriva la corsa agli armamenti, ma che vedeva la storia verso un ordine finale di pace perpetua, ci avrebbe detto che era normale la repressione in Birmania, che l’antagonismo è la chiave che porta alla socievolezza, che l’errore è l’inizio del senso della nostra disposizione naturale, e che se si fosse rimasti nella pigrizia e nell’inerzia dell’egoismo (che potremmo interpretare oggi come una sorta di distanza nei confronti delle rivoluzioni di altri mondi, nonostante il mondo sia unico da più di cinquecento anni), ci ritroveremmo in un paradiso armonioso e arcadico senza svolte importanti. Cerchiamo allora, noi che viviamo in un recito preparato da tempo da lotte interne ed esterne, da antichi imperi poi trasformatisi in assi del terrore, di non cullarci nella nostra federazione di giusti, cerchiamo di rivendicare cosa è giusto, e cerchiamo di raddrizzare il legno storto del mondo umano: se non si fa questo si è degli animali, si è equidistanti nei confronti di tutti e si vive tranquilli, senza mali, con un buon padrone, e noi delle buone pecore.

Davide De Caprio

venerdì 21 settembre 2007

Hans Ruedi Giger-Quando la carne e il metallo si fondono.


Hans Ruedi Giger immortalato in una foto recente

Hans Ruedi Giger è lo pseudonimo artistico di Hans Rudolph Giger, un artista degli effetti speciali nonché pittore svizzero, creatore insieme a Carlo Rambaldi della creatura aliena del film di Ridley Scott “Alien”.

Nato a Coira in Svizzera nel 1940, trascorre un’infanzia felice, passata a studiare le boccette variopinte nella farmacia del padre. In seguito frequenta un corso di design in un’accademia di Zurigo, la stessa città che comincia ad accogliere le mostre delle sue opere, che accolgono molto successo , grazie anche all’abilità che questo artista svizzero sviluppa con l’aerografo.

Infatti questo strumento gli permette di definire con un risvolto unico la sua tendenza pittorica del bicromismo che caratterizza le sue opere, rendendole inquietanti anche al pubblico di aficionados che man mano va costruendosi intorno alla sua figura.

Gli anni che seguirono le prime mostre furono sconvolti dalla morte per suicidio della sua prima consorte, continuando tuttavia ad essere popolati dalle sue opere raffiguranti i cosiddetti “Biomeccanoidi” organismi futuristici in cui il metallo e la carne si fondono a creare una creatura abominevole e spettrale, un incubo incarnato.

La sua fama raggiunge ben presto anche il mondo del cinema, infatti nel 1978 Ridley Scott decide di contattarlo per il progetto che sta mettendo in atto con Carlo Rambaldi .

Ai due il regista commissionerà la creazione del vero protagonista del film fantascientifico “Alien”, ovvero la creatura aliena che , si può notare, rispecchia benissimo la struttura fisico-organica dei “Biomeccanoidi”, e grazie alla quale Hans riesce ad ottenere un successo che gli varrà l’Oscar “Per i migliori effetti speciali”.

Ma i suoi progetti cinematografici non si fermano qui, infatti collabora con alcuni disegni al progetto di “Dune” di Alejandro Jodorowsky , poi ripreso da David Lynch, il quale gli lasciò mano libera solo per qualche ambientazione, mentre dà vita ad una nuova creatura nel film “Species”, il quale tuttavia non riscuote un tasso di gradimento elevato come quello di Ridley Scott.

Risposatosi, ora è ancora attivo con le mostre delle sue opere, uno degli artisti contemporanei più inquietanti e moderni del nostro tempo.


Un "Biomeccanoide", l'esempio del concetto espresso dall'arte di Giger

sabato 15 settembre 2007

Vignetta della domenica



Se qualcuno di voi desidera segnalarmi fatti, eventi o semplicemente argomenti sui quali vorreste vedere pubblicata una "Vignetta della domenica", non esiti a contattarmi cliccando sul link sotto stante oppure inviandomi una mail all'indirizzo "labak2005@libero.it".Sarò ben lieto di prendere in esame le vostre proposte.Ovviamente il vostro nome sarà citato sotto la vignetta in questione, nel caso vogliate rimanere nell'anonimato, chiaritemelo nella mail inviata.

Daniele Tartaglia

venerdì 7 settembre 2007

La body-art:Il corpo diviene opera

Le tendenze artistiche hanno raggiunto campi inaspettati, improvvisi, talvolta sconvolgenti nella loro bizzarria geniale, nel loro essere all'inizio originali, daprendere come modello pe i posteri che vogliano cimentarsi nello stesso tipo di arte.

Ed ecco che vediamo contadini fare dei veri e propri ritratti su campi di foraggio, ecco come semplici cuochi o operatori gastronomici sfornare delle vere e proprie sculture da frutta e ortaggi, oppure personaggi stravaganti che, non paghi del solito rudimentale castello di sabbia, creano dei bassorilievi magnifici e vere e proprie cittadelle nella parte della spiaggia antistante il bagnasciuga, arti effimere ma certamente di impatto agli occhi di chi le osserva.

Il campo dove l'arte nasce per durare ancorata alla vita di chi ne è portatore, fatta quindi per durare vita natural durante, tranne nei casi in cui si desideri il contrario, è quello della cosiddetta body-art.

Chi di noi non ha mai visto un tatuaggio o parti del corpo umano fuse con l'acciaio, quasi a sembrare un portaspilli di piercing ?

Molti nemmeno considerano la body-art come qualcosa da annoverare tra le arti e le tecniche artistiche tradizionali, ma è qui che sta l'errore di chi si ferma alla prima opinione.

Questo perchè niente più di quest'arte, come io la considero, richiede cura, dovizia, sacrifici, pazienza e attenzione, perchè nessuna tecnica artistica odierna trova la propria origine neglia atavici yempi della nostra preistoria come la body-art, la quale nell'epoca delle sue origini simboleggiava il desiderio umano di avvicinarsi di più all'invisibile mondo della religiosità o di unore il proprio corpo agli elementi più puri della nostra terra, del nostro mondo.

Mentre oggi ci si tatua per trasgressione o si ricorre alle varie mode del piercing o del marchio a fuoco per ribellione contro gli schemi perfezionisti di una realtà medio-borghese, in passato la pratica del tatuaggio, del piercing e della marchiatura a fuoco erano connotate da un'aura di misticismo e tradizione magica.

Basti pensare ai Maori della Nuova Zelanda o dell'Australia per vedere come i loro corpi decorati dall'inchiostro o dai monili fissati alla loro pelle, facciano parte di una tradizione secolare che si perde negli usi di una civiltà che non ha voluto rinunciare alla primitività.

In tempi odierni la body-art, come qualsiasi arte prolungata nel tempo, si è evoluta seguendo la via della sperimentazione e dell'innovazione, così si è passati a veri e propri impianti chirurgici che vanno a conferire al corpo caratteristiche come corna o rilievi particolari sottopelle, grazie all'inserimento di forme di acciaio chirurgico sotto l'epidermide.

Cade quindi il canone dell'arte su tela o materiale, cade il concetto di un'arte esposta a tutto il mondo,l'arte diventa parte della propria essenza personale, resa nota solo a pochi eletti o comunque a meno spettatori di quanti ne abbia l'arte "canonica".

il corpo diviene così portatore di arte ed il dolore provato per sobbarcarsi di simile carico non sminuisce la soddisfazione finale dell'opera comlpetata, a volte dopo sedute durate mesi, dal mio punto di vista un sacrificio sublime e accettabile a chi si dona all'arte, secondo l'opinione di molti una trovata sciocca e trasgressiva di balordi, scapestrati e sempliciotti.

Daniele Tartaglia